E’ ancora buio. Se vivessimo in città, direi che tutti ancora dormono, il trambusto quotidiano deve aancora iniziare. Ma qui il trambusto quotidiano non esiste. Ieri è passata una sola automobile, forse due, in tutto il giorno. E ancora non è caduta la neve, ad isolarci, ovattata.
Figuriamoci la notte. Le notti d’estate sono popolate da una gran varietà di animali del cielo e della terra. Ma d’inverno, no. Se ne stanno rintanati anche loro. Escono solo se necessario. Le caprie se ne stanno volentieri al calduccio in stalla. Abbiamo chiuso le principali feritoie da cui spiffera un vento tagliente. Solo il nostro cane si sente vigila contro i suoi fantasmi.
Mi sveglio in un sussulto. La respirazione difficoltosa. L’aria non vuole entrare nei polmoni. Bisogna introdurla con fatica. Un respiro dietro l’ltro. Sembra una missione impossibile da portare a termine. Faticosa. E poi, mi chiedo, dovrò continuare finché non ritornerà un respiro normale; se tornerà…Se non ternerà?
Il panico si impadronisce di me. Sudo freddo. Il naso è quasi occluso, intasato. Ricordi famigliari. Mio fratello, che da questa prova è stato preso di mire, mi ritorna agli occhi. Mi guarda, non dice nulla, ma vorrebbe dire. Deve risparmiare le parole. Ogni parola emessa è aria sottratta alla respirazione. Scuote per questo il capo e mi dice, con un filo di voce e con uno sguardo implorante: “E’ brutto non poter respirare…è brutto!”
Poi altri fantasmi mi si affollano davanti. Un giovane dalla vita sventurata, che abita vicino a noi quando ancora, una vita fa, abitavamo in città. La voce pietosa che solo una mamma può avere per il suo figliolo, mi dice, con parole che mi scolpiscono dentro come è morto. Preso alla gola. Senza aria. Come deve essere stato anche per le vittime della nave ‘Concordia’. Agitandosi, non riusciva più a stare a letto. Si lanciava alla finestra, l’apriva. Non importava la temperatura che potesse avere, ma cercava l’aria.
Di sicuro ho perso il sonno. C’è ancora buio. Misuro un’angoscia crescente, un respiro portato a termine, sembra un successo. Ma ne sta per cominciare un altro. Faticoso, duro, ostile. Foriero di prospettive che circostanziano a dovere la fine della nostra esistenza. Anche gli affetti più intimi, anziché portare conforto, come ci si potrebbe irenisticamente pensare, sembrano un intralcio, un appesantimento di quell’operazione naturale, cui in condizioni normali non poniamo neppure un attimo di considerazione.
Ci sono momenti in cui si percepisce chiaramente che il corpo, come residenza quotidiana, non sembra più un posto ospitale. La difficoltà fisica non approda ad una soluzione, che non sia quella di lasciarlo. Ma è una parola! La cultura non ti serve a nulla allora. Il sapere men che meno. Bastono i soliti e buoni vecchi consigli della nonna. Seduto sul letto, o alzato in piedi cammino un pochino. Sembra vada meglio.
Ma che ci faccio qui in piedi? Torno a letto, profittando del leggero senso di benessere che provvisoriamente ha fatto capolino. Ma oramai il demone non mi dà tregua. Attacca, colpisce, senza un attimo di riposo. Bisognerebbe staccare il cervello, penso. Potrei prendere una pillola, ma so che me la devo vedere io con quell’attacco, non posso sottrarmi a questo dovere, profittando di un ‘golem’ chimico. Di troppi errori abbiamo disseminato la nostra vita, per poi svignarsela in questo modo. Troppo comodo. In quel momento, niente ti sarà di aiuto… riecheggiano parole forti, ma sono alle corde.
Mi sembra d’essere completamente accasciato sotto i suoi colpi. All’improvviso mi viene in mente, senza che la pensi, una parola, anzi la Parola. La Misericordia, ar-rahman. Questa è la cosa che ci vorrebbe. La medicina salvifica per eccellenza. Ma la ‘cosa’, non la sua definizione.
Il cielo è ancora nero. Prima del farsi del giorno, è l’ora propizia. La mia vita in una parola. In principio era una parola. Ma anche alla fine. Tutto quello che ho fatto è per nulla. Al di la del bene e del male, risiede su un trono invisibile questa Parola, la Misericordia Suprema, Inderimibile. Poterla avvicinare sembra un sogno. Sembra un sogno anche che l’aria non devo più spingermela dentro a forza. Non riesco a crederci. Ora che ripercorro l’esperienza nel raccontarla e nel porgerla a voi che leggete, mi vien da piangere, ma due ore fa ne avevo un tremendo bisogno. Non pensavo a piangerci sopra, ero in presa diretta con ciò che non si può dire, l’Improferibile.
Ma che ci faccio ancora a letto? In posizione eretta non si respira meglio? Forse è stato solo in intasamento di naso. Un banale e neppure grave aspetto di un comunissimo, raffreddore, e neppure grave. Accendo il fuoco. Il sacro fuoco della Madre terrena angelicata mi dona del suo, mi scalda, mi consola. Gratitudine. Solo un raffreddore?
Albeggia intanto, compaiono le prime nubi disegnate in cielo dall’astro che sorge. Dicono che presto nevicherà. Bene. Posso sempre uscire e prendere due pezzi di legna.
Invece mi metto a scrivere. I problemi del mondo sono lontani quanto basta. La vita riprende. Ma non come prima. Meglio… si respira molto meglio…ora. C’è qualcosa di leggero nell’aria. Esco a vedere se è veramente leggera e fresca, con la scusa di prendere due pezzi di legna…
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