sabato 5 ottobre 2013

La mia mano sinistra.


Ogni sasso ha una storia. E non solo geologica. Anzi quella geologica è quella che meno mi sa rapire.
I sassi sono lavorati, e il lavoro li rende belli.
Il modo piu sempice di lavorarli è quello di giustapporli. A guisa di linee, cumuli, forme, o solo accostarle, combinarne i colori e conferire le forme suggerite dai colori stessi.



Il muro e la muraglia, e mio padre muratore. Mi sembrava un lavoro, il suo, eccessivamente tirato, perfezionista. La cazzuola correva veloce come in una danza a lisciare, aggiungere, togliere e poi attendere, la sabbia si rapprende, o si inumidisce di nuovo, come in un gioco in cui non si vuole mai smettere. Interminabile. Ma forse percepivo un suo amore che me lo rapiva.
E la sera a casa, a godersi la fatica, il dolceamaro della vita, mentre fuori è buio e, spesso, anche freddo.



Costruiva e riparava case, finestre, tetti, come capitava. Non ne ha mai posseduta una. Quanto felice lavoro avremmo potuto fare insieme, e continui  insegnamenti... Quante riparazioni legano insieme le pietre del cuore! Desiderio di costruire, ospitare, riparare, restaurare il vecchio con l'antico.
La fabbrica come una promessa. Grazie all'età e al servizio notturno volontario nella squadra antincendio, si era forse evitato l'Albania e la Grecia. Intendo la guerra.
La più bella eredità che mi ha lasciato è stato il gusto di sporcarmi le mani. Una specie di ponte, un gusto, a volte amaro a volte inestimabile, unico, di stare a metà, di essere sempre in mezzo, una devozione a Giano, tra il manuale e l'intellettuale; pagando sempre di tasca mia lo scotto di non essere mai a casa in nessuna delle due dimensioni e un poco in entrambe. Metaxù.
Mi ha lasciato il gusto per l'uso della mano sinistra, e con essa che dispongo anche io, a mia volta, i sassi, i chiodi e i legni. Io, sempre diverso dagli altri. Il maestro mi bacchettava letteralmente, mettendomi la penna davanti sul banco a mo' di esca tentatrice. Per vedere quale mano avrei mosso per prima. E la ragione doveva frenare l'istinto. La base di tutto.
Alla sera, per cena, avevo uno speciale cucchiaio, unico dei fratelli, con la parte concava a contenitore girata, quasi fosse una stampella ortopedica ad educarmi, a emendarmi nel 'vizio'. Quattro figli, anche se non tutti presenti contemporaneamente. Due maschi e due femmine. Due destrimani e due mancini. Anche questa simmetria  mi sembrava per nulla casuale e rendeva la tavola più bella, con una sua logica d'essere. 
Forse, se mi avessero concesso fin da bimbo di scrivere con la mano sinistra, come usano fare oggi seguendo le pedagogie antirepressive moderne, a volte penso che non avrei mai imparato a scrivere da destra a sinistra, a vedere le cose da un altro punto di vista. Non avrei appreso ad amare la solitudine, la poesia delle case abbandonate di montagna, a vedervi la vita che vi pulsava, a soffermarmi su ogni singola crepa, a guardare con sospetto i muri intonacati perchè così nascondono di cosa e come sono fatti in realtà. E sognare, tanto sognare, un magico ritorno della vita, degli uomini e delle donne, e delle bestie.
Soprattutto non avrei sentito quel forte desiderio, un sentimento di nostalgia, di pressante urgenza riparatrice, nel vedere quegli infissi bruciati dal sole e dal gelo. Un desiderio inesauribile di riportarli in vita, come mi accade sempre vedendo i muri a secco di case o terrapieni. Il mio pensiero va automatico alle mani che hanno sovrapposto quelle pietre. Provato e riprovato l'incastro delle forme. Un tempo che ritorna.
Un sentimento forte e greve da reggere come i sassi da sollevare, uno per uno. Nel mio eremo di Naulìt, i sassi erano i miei migliori e leali compagni. Mai mi avrebbero tradito. E quando, la mattina, sapone e asciugamano, mi recavo alla fonte limpida e fredda, mi sembrava di recarmi da un gigantesco papà del neolitico, da cui sgorgava non acqua, ma un canto argentino puro, modesto fino all'impudicizia di sfidare il tempo. Naulìt, un mosaico rustico come le gote di ciliegia marezzate di una sposa giovane al pascolo coi suoi armenti.



E risuona ancora nelle mie orecchie il canto di quel fontanile di montagna sperso nel silenzio dei monti e mi sembra di essere ancora là, dove vola il mio spirito, dove a lavarsi c'era da bagnarsi i piedi.
Ora cumuli di pietra, crollati nel disordine e nell'incuria. Travi pericolanti, balconcini lignei insicuri e traballanti, in realtà ancora ben solidi come querce incastonate nei muri. I sassi impolverati e antichi parlano alla mano che li accarezzi, senta la profonda umiltà della loro fatica e sapiente arte del giustapporsi, sceglierli, scheggiarli, incastrarli, combinarne le forme come nel gioco dell'eterno fanciullo.
Là, dove a metà strada la fatica del lavoro si unisce al piacere del lavoro, dove il mestiere si confonde con l'arte, l'arroganza del denaro vi è bandita e ogni opposizione si concilia nel silenzioso, antico mestiere del fare.

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