domenica 30 settembre 2012

L'Ombra del Destino.

"Sto facendo la cosa giusta?"
Non vi siete mai posti questa domanda? Forse si. Forse ce la siamo posta tutti. Forse continuiamo a porcela. Sembra la via maestra per insinuare il dubbio e le conseguenti insicurezze, vacillamenti, tormenti dolorosi con cui ci torturiamo l'esistenza.
L'ombra del dubbio si allunga su di noi, sulle nostre personali, esistenziali riflessioni personali delle nostre storie. Ci  sbilancia e ci rende eccentrici a noi stessi. Si perde l'equilibrio. C'è qualcos'altro fuori di me che potrebbe essere stato e non è. Una strada, una sceltache avrei pèotuto mettere in atto e che inveco non ho perseguito.
Non accettare il proprio destino quando esso è fatto stabilito, si è compiuto. A che serve continuare a tormentarsi per un passato che ormai resta deciso una volta per tutte? Un desiderio di autotorturarci.
Se fossi pù prudente, starei maggiormante attento a quello che significa nella tradizione islamica, l'attribuzione a Dio del nome 'Destino' (al-qadr). Uno spazio non umano, nel senso che è super-umano, oltre-umano. Appunto divino. Al contempo, una grazia, un'elargizione che ci solleva da una responsabilità inana, una preoccupazione infantile. Quella del controllo impotente e fallimentare del controllo razionale della realtà circostante, degli avvenimenti che accadono ma che penso mi sono cercato o in cui mi sono cacciato, il più delle volte.
Si perchè accade nche questo. Ci si ricorda del Destino solo quando esso appare ingrato. Quando le cose sono favorevoli è Fortuna, cioè un Destino provvido, se non addirittura merito personale.
Il grande dono del Destino, cioè di Dio, trasmuta una vita pensosa e preoccuppata su cause perse in partenza, in un dolce e fluente flusso di visioni spontanee, immediate, colorite, che si offrono nella loro spontaneità. Una grazia, un dono, leggiadria del fare incausato. I dolori si stemperano e assomigliano sempre più alle gioie. O attenuano il loro morso, semplicemente. Basta solo questo a consolamento del naufrago, immemore dello scampato pericolo. In un irraggiante arcobaleno di sfumature, non resta che gustare la vita, assaporarne le diverse tonalità. Una pienezza che non dà dipendenza o problemi di saturazione, nè rimpianto per quando viene meno.


Bene fece Dante, ma per noi moderni in ispecial modo - inguaribili 'facitori del nostro destino' - qui risulta incomprensibile condividere la valutazione del Poeta, a collocare Ulisse nell'Inferno. Di solito si 'giustifica', ma non si 'piega' e tanto meno 'approva' questa gudizio, che suona ingiusto, sull'Uomo dell'astuzia e del coraggio, del fedele marito e dell'indomita forza umana che si misura contro avversità e problemi, vincendoli tutti, per guadagnarsi il suo ritorno a Itaca. Certo tutti facciamo ritorno a Itaca, 'alla casa del Padre', al 'talamo nuziale'. Tutti se non inciampiamo nel razionalismo, nel non saper che non possiamo spiegare tutto, neppure tra mille anni, se non sappiamo che la salvezza, la salute e la soluzione non la possediamo, se non sappiamo che le chiavi di 'Casa', o del 'Regno', non sono in nostro possesso. E non possiamo entrarne in possesso tramite astuzie e furbizie. 
E soprattutto la nostra vita non è un'odissea, non è auspicabile. Il porto può stare dietro il promontorio, alla prima baia, come una improvvisa tempesta può portarci lontano e perderlo di vista, anche per sempre.
Lasciamo perdere - almeno per un attimo, tanto per assaporarne il gusto, il profumo, che scaturisce da questo oblio, come se, solo come se, a vincere fossero stati la maga Circe o i Lotofagi  - lasciamo perdere il 'percorso', la 'processione' degli eventi, la 'storia', occupiamoci di rapportarci solo di quello che conta, che viene per Primo, al Principio essenziale delle cose.
Allora il Destino ci apparirebbe per quello che è: non un ostacolo contro cui combattere, ma una Via sicura che conduce alla Meta, come una traccia rivelata, come non 'una' via ma 'la' via,  quella 'Retta'!
Riconduciamolo noi a casa questo ribelle navigatore perso nella eccessiva valutazione delle sue possibilità. Cos'ha da offrirci al massimo? Un tranquillo mènage borghese o un oblio sprofondati nella noia di una poltrona, davanti ad uno svogliato televisore, esangui e senza fede, in niente. E pensare che qualcuno ce la spaccia per 'Utopia'. E' questo il guadagno per "divenir del mondo esperti"? Avrebbe ragione lui solo perchè viviamo in 'un mondo di furbi'?
S'inabissa tutti i giorni questa nave, da soli o collettivamente.




Ospiti di passaggio al Tracciolino.



Nuovi ospiti sono arrivati sui nostri prati. Sono dei bellissimi cavalli. Hanno trovato ospitalità da noi. Almeno momentaneamente.


Sono bellissimi. Docili. L'ideale per andare a fare bellissime passeggiate. Puliscono i prati che è una meraviglia. Molto meglio delle vacche o delle pecore e capre. Senza contare, i fichi che lasciano sul terreno; sono una manna per le verdure i i frutti dell'orto.


C'è tutto quello che serve. Prati, erba, terra per gli orti, verdura e frutta. Eppure, eppure si preferisce altro. Città, città come Torino, che produce più tumori ai suoi abitanti di qualsiasi altra in Italia. Si preferiscono le comodità urbane, nonostante tutti i discorsi, poetici e meno, che facciamo sulla vita naturale e semplice che, a parole, diciamo di amare tanto. La montagna va bene per i l'aria fresca, pulita (relativamente), i funghi e le castagne. Ma la vita no, quella no. Quella ama la città. Magari amore conflittuale, ma grattacieli, smog e vita nevrotica esercitano un fascino perverso. Inutile negarlo. Un'attrazione fatale. Si preferisce inverare quel detto cinico e 'spiritoso', un motto d'arguzia che nasconde l'insidia della grettezza atavica: il denaro? Tutti lo criticano e persino disprezzano, ma tutti lo vanno a cercare!
La scelta? Una fede, una religione. Di più, una vocazione, una vocatio, una chiamata della Madre Terra. Chiamata che resta per lo più inascoltata. La montagna si spopola, la vita perde progressivamente di autenticità. Ma forse, in futuro, diventerà una necessità. Non è il massimo attendere la costrizione della necessità. Sarebbe meglio una scelta. Una scelta che non viene...
Intanto il pony nero e n'è gia andato nel frattempo. E gli altri tre aspettano che qualcuno li voglia comprare, sono in vendita per pochi soldi. Il prezzo della vita.



sabato 29 settembre 2012

Mondi Paralleli





Lo spunto nasce da un viaggio recente in Francia, Arlanc, in alta Loira.
Il motivo del viaggio è totalmente irrazionale, immateriale, un po' di sana compagnia e trovare più funghi possibile.
Lo so, può sembrare assurdo fare più di 500 km per cercare i funghi ma è una sorta di rito che si ripete da anni e io per la prima volta sono riuscito a parteciparvi.
L'invito è di un caro amico, una persona che stimo e senza sapere neanche bene i programmi mi sono aggregato.
In tutto siamo in cinque di diverse età e tutti con realtà quotidiane in qualche modo legate in gran parte alla vita moderna ma con quel sano desiderio di libertà che ci accompagna nelle scelte.
Arrivati sul posto siamo immediatamente partiti con la nostra battuta di caccia al porcino.
 L'organizzazione iniziale è notevole ma dopo pochi minuti siamo un branco sciolto, guidato dalle passioni e dai profumi, nulla ci guida se non l'istinto. Piove, il freddo taglia la faccia ma nulla ci ferma nella nostra impetuosa ricerca, sembriamo una truppa di alpini che cerca di stanare il nemico in terre sconosciute.
Nel bosco ci si muove lontani ma sempre a vista e se qualcuno manca ci si chiama, un appello costante perchè perdersi è un attimo e in queste situazioni capisci come la parola sia un dono, ma l'essenzialità e l'immediatezza di un verso, secco e deciso, porti gli altri a capire dove sei più facilmente e rapidamente, una sorta di emozione tribale e ancestrale emerge, siamo un branco unito da un obiettivo.
Dopo una giornata al freddo e il nostro bottino al sicuro ci siamo ritirati per un bagno e una doccia calda in un piccolo albergo del paese. L'accoglienza è ottima e il cibo ancor di più.
Dopo cena due passi per digerire in un paesino fantasma, case antiche, screpolate eppure sane, sagge.
Storia che emerge timida dagli angoli, dalle insegne dei vecchi negozi, dalle strade. Eppure i segni di contemporaneità non mancano, qualcosa non mi torna.
Passa qualche macchina ma tutto ha un sapore gotico e spettrale e un po' di malinconia cresce in me, un altro piccolo mondo abbandonato per i vizi moderni, per il caos, il delirio, le grandi città. Un pensiero va immediatamente alla mia casina sperduta nei boschi, circondata da pietre a forma di case, ma ormai solo pietre che testimoniano una vita antica, perduta.
E' tardi ed ora di dormire, un "fungiatt" (cercatore di funghi) si alza presto la mattina, è ora di andare a riposare.
All'alba ci svegliamo pronti per una nuova battuta di caccia e dopo colazione andiamo subito a comprare pane e formaggio per la giornata.
Ancora stordito di sonno uscendo dall'albergo si para davanti ai miei occhi uno spettacolo inatteso: le strade brulicano di persone, le vecchie insegne dei negozi prendono luce e colore mentre le serrande salgono, un fermento pazzesco, macchine, biciclette, persone!
Siamo in montagna lontani, lontanissimi da una città che possa offrire comodità o scomodità a seconda delle scuole di pensiero, ma non manca nulla e soprattutto non manca nessuno. Si vive di economia locale, pastorizia e agricoltura principalmente, piccole botteghe e tante persone che alle otto di mattina erano già pronte a mandare avanti quel piccolo eppur grande mondo.
Ho provato una tale gioia nel vedere una realtà così che ho avuto il sorriso stampato in faccia per tutto il giorno, ciò che sogno da qualche parte nel mondo esiste, non è una mia divagazione inutile, non è un sogno che non sta in equilibrio sui pilastri della realtà.
Neanche a farlo apposta qualche giorno prima ero stato un po' di tempo a guardare le gru che a Torino stanno incessantemente elevando il grattacielo progettato da Renzo Piano per la nuova sede di Banca Intesa San Paolo. Fiumi di cemento che scorrono e che snatureranno completamente un profilo assai caro ai torinesi con la loro mole, un mostro "parcheggiato" in doppia fila a ricordarci ogni istante, quasi non lo sapessimo, che mentre ci vengono richiesti sacrifici e viene criminalizzata sempre più la ricchezza per cui ormai bisogna vergognarsi a priori se si possiede qualcosa, c'è qualcuno che ci sbatte in faccia con disprezzo lo spreco e noi quasi come fosse un film in tv, sdegnati guardiamo e basta senza fare nulla e magari andando a metterci in fila per un iPhone nuovo.


lunedì 24 settembre 2012

Marikana, un massacro razzista democratico.

Nell'arido deserto sudafricano si trova una località dal nome esotico, siamo nel cuore brullo e arido del Sud Africa. Marikana. Un luogo decisamente inospitale, forse un tempo gruppi di cacciatori lo attraversavano con una conoscenza del terreno ineguagliabile. Conoscendo ogni pozza di acqua, ogni cespuglio, ogni rilievo roccioso.
Quel che alle nostre orecchie distratte potrebbe suonare come il nome di una discoteca alla moda in cui i nostri giovani compatrioti vanno a stordirsi con danze che non vogliono dir nulla, alcool, baccano e luci intermittenti, in realtà indica un distretto minerario importante. Si estrae minerale di platino dalle viscere della 'Madre Africa'. Minatori neri si inabissano tutti i giorni per divorarne rocce intestine.
Viene deciso uno sciopero per rivendicare un salario più alto. Escono dal sottosuolo, si siedono sulla collina, forse naturale, forse di detriti degli scavi minerari, cantano con parole antiche il loro orgoglio, la loro protesta, i loro passi prendono il sapore dei vecchi cacciatori, si accompagnano con un ritmo cadenzato con lance da museo etnografico e coltelli e semplici legni da percussione. Ma per termine ambiguo percussione, vertiginosamente polisemico. Vuol dire percuotere, picchiare, battere, suonare sezioni ritmiche, provocare. Ri-percuotere, addirittura causare, effettuare. Come è giusto dai canti e dalla danza, dall'arte cioè, nascono cose. Si fa un gran parlare di arte, poesia, come mitopoiési, poi quando ce la si trova dinanzi si resta smarriti, attoniti, sconcertati. I loro canti non sono difatti un 'concerto', non si sa nulla dei brani in programma, chi esegua che cosa, nè quanto duri la performance. E' la vita, il salario. Il lavoro, il sangue e la terra a muovere  e mestare i sentimentimenti.
La polizia ha paura. Troppo arcaici, 'primitivi'. Eppoi c'è in discusione l'economia estrattiva. Il profitto e gli investimenti che devono rientrare con debiti guadagni. Il filantropismo va bene quando si tratta di razzismo, di apartheid, non quando c'è di mezzo il Dio denaro. Spara. Dicono con proiettili di gomma. Ma filmati e reportages giornalistici dicono il contrario. Colpi di mitragliatore e pistole. Spari ad altezza d'uomo. Restano sul terreno 34 minatori, tutti neri. E' la fine d'agosto del 2012.
La polizia no. La polizia è del nuovo Sud Africa e multirazziale, bianchi e neri insieme, uomini e donne. Uniti nel mantenere il nuovo ordine sociale democratico. Certo, le solite discusioni. Le provocazioni, i sindacati, i facinorosi, gli estremisti. 




I fatti sono li che parlano chiaro. A quella folla di uomini seduti sulla collina, i loro crani nudi e lucidi al sole. un vermicolare di moltitudine incontrollabile, a quella negritudine va data una lezione di modernità. Credono forse di essere ancora ai bei tempi del Sud Africa razzista, paternalista, vergogna del mondo col suo apartheid? Certo, per più ragioni,  non è più tempo, nè di paternità, nè di tutto ciò che vi può connettere. Ora si spara ad altezza d'uomo contro dei lavoratori in sciopero. E tutto il mondo cosiddetto civile tace. Pronto a scattare se fosse stato uno scontro razziale, ovviamente dei cattivi bianchi contro i buoni neri, ora non dice una sillaba.
Una fonte giornalistica indipendente traccia la morale amara della storia: "Diciotto anni dopo il raggiungimento della democrazia, nel Sud Africa è ampiamente diffusa la corruzione e la disoccupazione è a livelli abnormi (crippling). Col crescere sempre più dei minatori, lo sciopero assume il significato di uno sguardo radicale su questi problemi sociali".
Non sembrano i minatori sardi del Sulcis? Non sembra la storia della guerra civile nordamericana e la sua 'favola' dell'emancipazione dei neri?
Nessuno esalta come un successo di civiltà lo 'schiavismo', per altro in gran parte alimentato da mercanti danarosi e proprietari terrieri senza scrupoli, ma neppure di tessere le lodi dell'emancipazione, dell'abolizione della schiavitù. Perchè? Semplice. E' una falsità. E' ben viva e vegeta! Non più in candidi abiti bianchi coloniali. Anche l'imperialismo, "fase suprema del colonialismo" (Lenin), con eserciti e corazzate, sembra un ferro vecchio. Oggi si usano velivoli senza piloti,  e il controllo sociale non avviene con individui in soprabito nero di pelle con occhiali scuri. L'annichilimento della protesta oggi viaggia wireless. Le transazioni si attuano con un click. Il vecchio denaro, ancorchè condizionato da sistemi mondiali centralizzati, ha un che di Ottocentesco.
Si tratta di una forma più sofisiticata di schiavitù. Ed altre ben più raffinate ci attendono. Non si occupa più militarmente il suolo (al massimo si esporta la democrazia, come gli infami governi collaborazionisti italici fanno), non si odono clangori di catene, si agisce con debiti, interessi, usura, piani mondiali di prestiti, cioè debiti visti dall'altra parte. Tasse e vessazioni per decenni e secoli a venire. Condizionamenti su scelte che ipotecano il nostro futuro, quello dei nostri figli. E' il nostro senso di umanità che ci va di mezzo.
Ma cosa volete, il progresso non si può arrestare. Lo sanno tutti!


http://www.frontlineclub.com/events/2012/10/what-does-the-marikana-massacre-mean-for-south-africa.html?utm_source=Frontline&utm_campaign=9997f4178e-24+September&utm_medium=email



venerdì 14 settembre 2012

L'Amore per un sogno antico.




Il volto fiero del poeta braccato. Aveva osato, in epoca moderna, ciò che per un intellettuale medioevale sarebbe stato scontato fare, naturale, ovvio: criticare il sistema usurocratico.
Pratica 'diabolica', quella dell'usura, del prestito a interessi (fissi, variabili o dietro pegno), così si esprime il Corano. A ragione lo paragona al cannibalismo. Contro natura per Dante, accostata alla sodomia. Per secoli, il Cristianesimo cercò di porre argine al fenomeno. Esaltò la Povertà, anche se nella fattispecie, la Navicula Petri impietosamente andò a sbattere contro questo scoglio esiziale. Si inventò i Monti di Pietà, vi scagliò contro Santi, Predicatori e Padri della Chiesa. Istituì il Ghetto, a circoscrivere il contagio.
La tradizione ebraica lo proibisce se praticato tra ebrei, ma lo consente se ad indebitarsi è un goym, un gentile. Può darsi che l'universalismo cristiano sia una forma primitiva di ciò che viene chiamato oggi 'mondializzazione', ma ci rese immune da simili barbarie entro la famiglia umana. Forse ne avremmo avuto ripugnanza a prescindere.



Spirito nato lontano dall'Italia, vi si stabilì nel 1924. Migrò come un uccello al suo nido, verso il suo amato golfo del Tigullio. Aveva 39 anni. Amava troppo la poesia cortese. Detestava l'assordante civiltà delle macchine. Lontana dalle cose celesti.
Vi lasciò il seme dell'amara sconfitta che sembra quasi essere aleggiato e respirato da Montale, anni dopo. Amò questo paese che in altre epoche aveva dato molto al mondo ed all'Occidente in particolare. In quegli anni sognava la grandezza antica. Perseguì quel sogno di rinnovamento contro la modernità non solo a parole.
Molti lo vorrebbero, ancora oggi, un innovatore del linguaggio poetico e basta. Un po' come Céline, che ammirava. Ma aveva la passione che gli ardeva dentro il cuore.
Forse, anzi, sicuramente vi è anche questo. Il novatore letterario. Ma vi è molto altro. 
Seguì, dopo il tradimento dell'8 settembre, la sua lotta. Aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Fu onorato di battersi da 'repubblichino' - come sprezzantemente ancora oggi vengono definiti coloro che scelsero di riscattare l'onore della Patria, così vilmente ferito, dagli storici embedded - per il suo paese elettivo, che amava più di molti altri italiani.
L'ideale emerge con un'evidenza abbacinante, come cosa certa, come un'epifania del sacro, nel momento in cui non conviene più perseguirlo, o non vi sono più 'ragioni' utilitaristiche dietro le quinte. Questa Patria era amata da Pound per lo meno quanto quella in cui era nato. Culla della democrazia moderna, che si mostrò così matrigna, almeno il suo establishment, da condannarlo al manicomio criminale dal 1945 al 1958 reo di aver fattivamente collaborato col 'nemico'. Aveva dato la sua anima appassionata e la voce ai microfoni dell' EIAR, l'antenata della RAI. Per due anni, due volte la settimana, dal 1941 al 1943, tuonava i suoi pensieri forti come strali, alti come aquile, solidi come la roccia, rivolti alle forze alleate anglofone. Soprattutto americane. Difese l'Italia, difese l'Europa, difese le cose che amava. Fatto imperdonabile. Così singolare, così fuori dal coro. Tant'è che i suoi detrattori lo trattano da 'eccentrico'. I suoi occhi guardavano solo il suo cuore; l'Amore della sua Vita Nova. Solo questo! Solo?
Ancora oggi temibili quei discorsi, perchè troppo sinceri ed onesti. Si rivolge a tutti i radioascoltatori, non più dalle isolate cime dei suoi Cantos, ma da un microfono. Le sue parole gli verranno rinfacciate dal tribunale militare di guerra come tante 'prove'. Sono le registrazioni effettuate dalla base inglese di Malta. Riscoperte, è materiale che scotta ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Nessuna edizione integrale di questi suoi discorsi, nessuna casa editrice italiana mostra la dignità dell'onore, di restituirgli, almeno da morto, un briciolo di riconoscenza. Occorre depurarlo, addomesticarlo, interpretarlo, giustificarlo attraverso selezioni e esegesi opportune. Delle trasmissioni radiofoniche effettuate dopo il 1943 dalla sede di Milano non resta traccia. Distrutte, si pensa.
Come i grandi non smette di far discutere, di inquietare le coscienze  dei dormienti e dei venduti. La vicenda della sua damnatio memoriae lo insegue anche nell'oltre tomba. Cosa di cui, suppongo, andrà fiero e lo divertirà.

Diceva: "Le guerre vengono scatenate per indebitare. La nostra guerra civile [quella americana] era collegata al debito. Christopher Hollis lo sa, leggete il suo libro, Two Nations,  che parla dei debiti del Sud verso la città di New York. La Grecia [incredibile, ancora la Grecia!]  spende il 54 per ento della sua ricchezza per pagare gli interessi sul debito. Fino a quando non saprete chi ha prestato che cosa a chi, non potrete mai capire nulla della politica, della storia, delle truffe internazionali. E' da vent'anni che mi occupo di queste cose, ma non mi leggerete. Le giovani generazioni non leggeranno dopo essere state messe a ferro e fuoco e seppellite da tonnellate di bombe. Potrebbe essere la vostra ultima possibilità."

Oggigiorno, i prestiti - che se visti dall'altra parte non sono che debiti - oltre che personali, famigliari o delle imprese, sono soprattutto degli Stati e delle Banche. Vanno alla grande. Imperversano. Tutti sono pronti ad offrire soldi in prestito, persino lo Stato. Arrivano messaggi in tal senso nella cassetta della posta o via sms sui telefoni cellulari. L'insolvenza un ricatto quotidiano. Vogliamo capire se è "la nostra ultima possibilità"?

venerdì 7 settembre 2012

Ospiti presso il castello di Verrès.

Andar per castelli, potrebbe essere un piacevole diversivo per trascorrere qualche ora 'diversa'. Non intendo dire per evadere dalla monotonia del quotidiano. Mai come in questo caso, si deve intendere - per noi che viviamo come sospesi tra i monti walser valdostani ed il sacello primevo della Madonna-Madre Nera di Oropa, su una dorsale disegnata con forze immense nel corso di epoche geologiche passate - per 'quotidianità' non il tedio delle occupazioni quotidiane, semplici, umili, servili, direi, ma la dimensione profana. Il pigro adagiarsi in un sonno, e potrebbe anche rivelarsi mortale se non se ne ha 'cura', del quotidiano come profano, ferialità come lontananza dal sacro, dalla trascendenza, dal contatto vivificatore di tutto. In diaferesis. 
Ci siamo quindi buttati un giorno nel viaggio che conduce nella vicina Val d'Aosta, come assetati in cerca di ristoro, arsi da prove in cerca di balsami, unguenti  e profumi che sanno di mito e di favola, per le nostre anime bisognose di rifocillarsi da tanto 'spread', tanto neolinguaggio di massa, un 'non-sense' materialistico globale che fluisce ininterrottamente dal 'mondo civile', con i suoi sottili veleni che penetrano anche le mura del nostro eremo montano e corrodono tutto ciò con cui entrano in contatto.
Abbiamo così trovato rifugio presso la cortese ospitalità di uno dei Signori cui da sempre era appartenuto il maniero di Verrès, il Visconte di Challant. Anch'egli rifugiatosi secoli fa tra le asperità montane.





Posto a guardia dell'imbocco della Valle d'Ayas,  diparte da quella principale che la Dora disegna col freddo acciaio che scende dai nevai, una lama che taglia il terreno a valle. Ghiacciai forse non più perenni, ma certamente anziani e saggi al punto di poter pensare di sfidare l'eternità.
Il Signore di Challant è un vecchio amabile, fine, avvezzo ai modi che furono di altri tempi. Senz'altro più lenti,  più attenti ad indagare nell'umanità. Sicchè la sua cortesia, viene spesso adombrata da occhi dolci ma indagatori, che si possono reputare capaci di leggere nella profondità del cuore. Temibili dunque.
Avevamo superato tutte le prove, per salire al suo castro. Non ultime gli schiamazzi dei turisti, la concitazione del cogliere un'immagine fotografica da serbare, da trafugare come ricordo, puerile ma comprensibile. E poi, ancora quelle scale moderniste che conducono all'ingresso della rocca, che distraggono dal vero obiettivo e rapiscono i più distratti. Le luci 'a led' mi spiega il mio compagno d'avventura. Luci disseminate lungo il cammino ascendente, dentro un orribile corrimano in acciaio inox. Garanzia di pigrizia contro la manutenzioni richiesta dal nobile ma decaduto legno. Questi elementi non fanno altro che introdurre un peso ulteriore, e non necessario, all'ascesi. Ascesi, in cui neppure un passo deve darsi come scontato e facile. L'orgoglio delle pietre risistemate quasi a illudere  il viandante sulle false comodomità della vita artificiale su cui la modernità ha puntato tutto.
Ora sarà forse opera della Regione autonoma, forse del Comune, forse di entrambi, che avrà finanziato la 'messa in scena' di fruizione turistica e organizzato 'eventi', improbabili cene con servizio catering in guisa medievale. Ieri, le pietre disordinate e confuse, hanno spinto lo spirito di Alfonso D'Andrade, architetto lusitano approdato in queste terre a sognare di manieri, castelli, Dame e Cavalieri, fatti d'arme e d'onore, mille e miglia lontani, e per questo ben più graditi, a lasciare la ribollente e operosa città di Torino da cui veniva. Città che stava riscaldandosi i muscoli, impaziente di iniziare il folle volo, il sogno positivistico del progresso, della luce elettrica, dell'acciaio, ed infine della sirena dell'industria dell'automobile, dell'imminente rivoluzione industriale. Sappiamo come questa storia andrà a finire. Ma il sogno pre-rafaellita di D'Andrade era vorace, si impadroniva di tutto. Come lo fu per W. Morris o J. Ruskin. Con la differenza che fu l'Inghilterra a precorrere i tempi e con gran stile, bisogna dire, e il neonato Regno d'Italia a proporre un'imitazione sbiadita, con una coscienza meno nitida e critica.
L'aria che respirava conteneva per D'Andrade già le polveri  sottili e pesanti, l'inquinamento sociale, civile, caotico lo spingevano verso i monti, sereni e 'fuori dal tempo', dove l'orma di epoche felici ancora era capace di ispirazione e vitalità.  Il bisogno di fuggire dai ferri oleosi delle officine, dallo stridore dei primi macchinari utensili delle manifatture, dal trambusto alienante, lo spingeva a costruirsi un sogno tutto suo in cui rifugiarsi. Così è nato il Borgo e la Rocca 'medievale' del Valentino. Così le sue, e un po' anche le nostre, visite verso un 'altro' mondo. Il sogno del Borgo torinese fu pagato coi finanziamenti dell'Esposizione Universale del 1884 di Torino che voleva ripagarsi con l'illusione industriale della perdita della centralità del giovane Regno, a favore prima di Firenze e poi di Roma. Più che una rivolta contro il mondo moderno si trattò, come per gli albionici, di un orpello, un cruccio, un vezzo romantico che il mondo moderno poteva permettersi di mantenere.


Il rifacimento romantico, trasognante, dell'architetto lusitano ha infranto per sempre le pietre sparpagliate delle rovine del castello di Verrès. Le scale soprattutto. Stirate le rughe, il lifting conferisce all'edificio un nuovo sapore, una nuova vita a quei gradini a sbalzo. Un sapore molto più esteriore. Meno meditatico e raccolto. Tra gli archi delle porte e architravi quasi arabeschi che ricordano il gusto gotico portoghese, si nota il bassorilievo di uno stemma gentilizio. E' quello dell'antica famiglia Challant, il cui sangue originario non è valdostano.
Il Conte, in compagnia del suo immancabile levriero, come una gemma antica incastonata del suo prezioso anello, sta nel suo castello. Guarda con occhio paziente le innovazioni introdotte da D'Andrade. Ebbene, si. Superati i veli della ricostruzione romantica, quelli dell'insipido trattamento turistico, si può sperare di accedere all'ospitalità, riservata a pochi, del padrone di casa, cui la servitù si inchina al suo passaggio. I capelli bianchi, la saggezza. La corpulenza dell'uomo attivo.
Da autentico anfitrione ci mostra fiero i sassi antichi. Un quadro di un avo attira la nostra attenzione. Restituisce un'informazione, un dettaglio che ci sembra del tutto straordinario. Il vecchio Conte lo sa. Conosce questo segreto. Fa parte del suo sangue. Non può essere appreso. Neppure con tutta la buona volontà di questo mondo.


Ibleto, l'antenato  ritratto nel quadro che non gli è contemporaneo, mostra i veri colori dello stemma di famiglia. E curiosamente, il vestito che indossa riprende lo stesso motivo. Dunque l'abito fa il monaco. Non è un vacuo ornamento nobiliare, è un messaggio, un contenuto. Inolte, il bassorilievo di D'Andrade esce dal vago, dalla neutra tinta della pietra di un'ocra pallida, escono dall'oblio i tre colori della Tradizione: il rosso (rubedo), il nero (nigredo), il bianco (albedo).


Ecco, così, con questi colori fiammanti dobbiamo immaginare lo scudo di questi Cavalieri gentili, che ci portano a noi lobotomizzati televisivi il ricordo perduto, o quasi perduto, delle cose essenziali.
In effetti quel castello, non ha molto senso dal punto della strategia militare. Austero e arroccato forse combatte una sua guerra particolare. Si dice che mai abbia dovuto affrontare un assedio o una guerra, nel senso esteriore del termine. I Cavalieri degli Challant combattono la loro battaglia interiore. Quella sul piano  nero, della materia vivente. Eccitante, inebriante, cieca vitalità, cavernosa e scura come la cavità da cui provengono gli esseri viventi. La materia ricalca perfino nel suono la matrice e la maternità. Vita e morte si generano in un unico respiro vigoroso. Il più grande parto è stato quello della creazione o del manifestarsi delle cose. Va accettata in tutto il suo pathos, dolore e sentimento. Riconduce all'umiltà, all'humus, alla terra dunque. E come la terra è nera. Nell'accettazione sta la vittoria cavalleresca. Nel respingere i demoni del desiderio di purificazione.
Sul piano del bianco, quello della purificazione dell'essere manifestato. Aspira al rientro, ma non può desiderarlo. Si macchierebbe, con questo desiderio, di una colpa che comprometterebbe la transizione verso la luce. Il distacco dalle passioni terrene che ci avviluppano è una Grande Guerra. Nell'agire interiore contro il desiderio stesso di liberazione sta il suo trionfo. Le conseguenze delle azioni lasciano indifferente questo Cavaliere. Combatte perchè sa che questo è il suo dovere, la sua Legge, il suo Dharma. Ma non gioirà mai dei successi, nè soffrirà mai delle sconfitte. Gli sono inaccessibili.
Sul piano del rosso,  quello del fulgore di chi coopera con la creazione, con il manifestarsi del Bene, conosce armi e durezza dello scontro. Ma conosce pure perfettamente le Leggi della Cavalleria spirituale. E quindi, benchè maneggi armi simili a quelle dei suoi avversari da queste non ne viene contaminato. La mano che colpisce con la spada, di lama o di punta, ne resta contaminato, offeso, ferito, proprio come la sua vittima. Il fulgore dello spirito immette nell'azione una purezza incontaminata, un fuoco purificatore, una fornace, un crogiolo da cui usciranno solo luce e bene, armonia e oro. Se proprio volete, anche benessere materiale, ma il totale disinteresse rende impossibile ogni calcolo oscuro, tenebroso, economico.
Si potrebbe anche assimilare  questi piani dell'essere sia in sequenza apicale, sia orizzontalmente. Sono le modalità di manifestazione degli esseri senzienti, i te guna, nella tradizione induista. Tra i significati che questo termina possiede in lingua sanscrita, vi è quello di 'corda' e di 'colore'.
Altrettanto bene si adatta a questi tre colori, la condizione dell'essere senziente e umano in particolare, la tripartizione improntata ai suoi rapporti con il Tempo; giacchè ogni essere manifestato si attua nel Tempo, e dunque con esso instaura un rapporto. Siamo debitori a S. Devi di questa precisazione dottrinale. Gli esseri "nel Tempo" (nero), quelli "fuori dal Tempo" (bianco) e quelli "contro il Tempo" (rosso).
Il vecchio Conte ci svela i suoi misteri, i suoi segreti a noi pellegrini in fuga su questa terra. Nel suo sangue scorrono ancora vivi i rivoli delle sorgenti, prima di essere un Challant era un Bosone, un Bouvin, un  guerriero franco, la Provenza e la Borgogna nel sangue, la legge merovingia nel cuore, il sangue della guerra santa gli era famigliare. Aveva combattuto i mori, prima divenire a scorre tra le valli alpine occidentali. Nessuna meraviglia quindi se possiamo vedere i colori del suo casato riflettersi in quelli dell'Ordine dei Guerrieri-Monaci più noti del Medioevo, quello dei Templari.


La loro fine, se di questo si può parlare, ha segnato la fine di un'epoca. Avevano una spada propria ed un'economia propria. L'indebitato Filippo il Bello, Re di Francia, li processò e li condannò al rogo, grazie anche alla colpevole responsabilita della Chiesa di Roma.
La loro guerra, quella dei tre guna, non avrà mai fine, e ciclicamente è destinata a riaffiorare. Il vecchio conte ci commiata, ma prima di ritirarsi nelle sue stanze, ci lancia uno sguardo sornione e furbescamente allusivo. Gli occhi si fanno piccoli e sprizzano astuzia e saggezza, il suo volto si illumina, e non ci sembra neppure più cosi curvo e vecchio. Sembra ora senza un'età precisa. Si vede che ha giocato col Tempo.
Noi riprendiamo la via del ritorno a casa, sui monti non distanti, paghi della giornata trascorsa  da ospiti presso il Visconte di Challant, maestro nelle leggi della 'Cortesia' che qualcosa ha da dire ancora oggi.