venerdì 7 settembre 2012

Ospiti presso il castello di Verrès.

Andar per castelli, potrebbe essere un piacevole diversivo per trascorrere qualche ora 'diversa'. Non intendo dire per evadere dalla monotonia del quotidiano. Mai come in questo caso, si deve intendere - per noi che viviamo come sospesi tra i monti walser valdostani ed il sacello primevo della Madonna-Madre Nera di Oropa, su una dorsale disegnata con forze immense nel corso di epoche geologiche passate - per 'quotidianità' non il tedio delle occupazioni quotidiane, semplici, umili, servili, direi, ma la dimensione profana. Il pigro adagiarsi in un sonno, e potrebbe anche rivelarsi mortale se non se ne ha 'cura', del quotidiano come profano, ferialità come lontananza dal sacro, dalla trascendenza, dal contatto vivificatore di tutto. In diaferesis. 
Ci siamo quindi buttati un giorno nel viaggio che conduce nella vicina Val d'Aosta, come assetati in cerca di ristoro, arsi da prove in cerca di balsami, unguenti  e profumi che sanno di mito e di favola, per le nostre anime bisognose di rifocillarsi da tanto 'spread', tanto neolinguaggio di massa, un 'non-sense' materialistico globale che fluisce ininterrottamente dal 'mondo civile', con i suoi sottili veleni che penetrano anche le mura del nostro eremo montano e corrodono tutto ciò con cui entrano in contatto.
Abbiamo così trovato rifugio presso la cortese ospitalità di uno dei Signori cui da sempre era appartenuto il maniero di Verrès, il Visconte di Challant. Anch'egli rifugiatosi secoli fa tra le asperità montane.





Posto a guardia dell'imbocco della Valle d'Ayas,  diparte da quella principale che la Dora disegna col freddo acciaio che scende dai nevai, una lama che taglia il terreno a valle. Ghiacciai forse non più perenni, ma certamente anziani e saggi al punto di poter pensare di sfidare l'eternità.
Il Signore di Challant è un vecchio amabile, fine, avvezzo ai modi che furono di altri tempi. Senz'altro più lenti,  più attenti ad indagare nell'umanità. Sicchè la sua cortesia, viene spesso adombrata da occhi dolci ma indagatori, che si possono reputare capaci di leggere nella profondità del cuore. Temibili dunque.
Avevamo superato tutte le prove, per salire al suo castro. Non ultime gli schiamazzi dei turisti, la concitazione del cogliere un'immagine fotografica da serbare, da trafugare come ricordo, puerile ma comprensibile. E poi, ancora quelle scale moderniste che conducono all'ingresso della rocca, che distraggono dal vero obiettivo e rapiscono i più distratti. Le luci 'a led' mi spiega il mio compagno d'avventura. Luci disseminate lungo il cammino ascendente, dentro un orribile corrimano in acciaio inox. Garanzia di pigrizia contro la manutenzioni richiesta dal nobile ma decaduto legno. Questi elementi non fanno altro che introdurre un peso ulteriore, e non necessario, all'ascesi. Ascesi, in cui neppure un passo deve darsi come scontato e facile. L'orgoglio delle pietre risistemate quasi a illudere  il viandante sulle false comodomità della vita artificiale su cui la modernità ha puntato tutto.
Ora sarà forse opera della Regione autonoma, forse del Comune, forse di entrambi, che avrà finanziato la 'messa in scena' di fruizione turistica e organizzato 'eventi', improbabili cene con servizio catering in guisa medievale. Ieri, le pietre disordinate e confuse, hanno spinto lo spirito di Alfonso D'Andrade, architetto lusitano approdato in queste terre a sognare di manieri, castelli, Dame e Cavalieri, fatti d'arme e d'onore, mille e miglia lontani, e per questo ben più graditi, a lasciare la ribollente e operosa città di Torino da cui veniva. Città che stava riscaldandosi i muscoli, impaziente di iniziare il folle volo, il sogno positivistico del progresso, della luce elettrica, dell'acciaio, ed infine della sirena dell'industria dell'automobile, dell'imminente rivoluzione industriale. Sappiamo come questa storia andrà a finire. Ma il sogno pre-rafaellita di D'Andrade era vorace, si impadroniva di tutto. Come lo fu per W. Morris o J. Ruskin. Con la differenza che fu l'Inghilterra a precorrere i tempi e con gran stile, bisogna dire, e il neonato Regno d'Italia a proporre un'imitazione sbiadita, con una coscienza meno nitida e critica.
L'aria che respirava conteneva per D'Andrade già le polveri  sottili e pesanti, l'inquinamento sociale, civile, caotico lo spingevano verso i monti, sereni e 'fuori dal tempo', dove l'orma di epoche felici ancora era capace di ispirazione e vitalità.  Il bisogno di fuggire dai ferri oleosi delle officine, dallo stridore dei primi macchinari utensili delle manifatture, dal trambusto alienante, lo spingeva a costruirsi un sogno tutto suo in cui rifugiarsi. Così è nato il Borgo e la Rocca 'medievale' del Valentino. Così le sue, e un po' anche le nostre, visite verso un 'altro' mondo. Il sogno del Borgo torinese fu pagato coi finanziamenti dell'Esposizione Universale del 1884 di Torino che voleva ripagarsi con l'illusione industriale della perdita della centralità del giovane Regno, a favore prima di Firenze e poi di Roma. Più che una rivolta contro il mondo moderno si trattò, come per gli albionici, di un orpello, un cruccio, un vezzo romantico che il mondo moderno poteva permettersi di mantenere.


Il rifacimento romantico, trasognante, dell'architetto lusitano ha infranto per sempre le pietre sparpagliate delle rovine del castello di Verrès. Le scale soprattutto. Stirate le rughe, il lifting conferisce all'edificio un nuovo sapore, una nuova vita a quei gradini a sbalzo. Un sapore molto più esteriore. Meno meditatico e raccolto. Tra gli archi delle porte e architravi quasi arabeschi che ricordano il gusto gotico portoghese, si nota il bassorilievo di uno stemma gentilizio. E' quello dell'antica famiglia Challant, il cui sangue originario non è valdostano.
Il Conte, in compagnia del suo immancabile levriero, come una gemma antica incastonata del suo prezioso anello, sta nel suo castello. Guarda con occhio paziente le innovazioni introdotte da D'Andrade. Ebbene, si. Superati i veli della ricostruzione romantica, quelli dell'insipido trattamento turistico, si può sperare di accedere all'ospitalità, riservata a pochi, del padrone di casa, cui la servitù si inchina al suo passaggio. I capelli bianchi, la saggezza. La corpulenza dell'uomo attivo.
Da autentico anfitrione ci mostra fiero i sassi antichi. Un quadro di un avo attira la nostra attenzione. Restituisce un'informazione, un dettaglio che ci sembra del tutto straordinario. Il vecchio Conte lo sa. Conosce questo segreto. Fa parte del suo sangue. Non può essere appreso. Neppure con tutta la buona volontà di questo mondo.


Ibleto, l'antenato  ritratto nel quadro che non gli è contemporaneo, mostra i veri colori dello stemma di famiglia. E curiosamente, il vestito che indossa riprende lo stesso motivo. Dunque l'abito fa il monaco. Non è un vacuo ornamento nobiliare, è un messaggio, un contenuto. Inolte, il bassorilievo di D'Andrade esce dal vago, dalla neutra tinta della pietra di un'ocra pallida, escono dall'oblio i tre colori della Tradizione: il rosso (rubedo), il nero (nigredo), il bianco (albedo).


Ecco, così, con questi colori fiammanti dobbiamo immaginare lo scudo di questi Cavalieri gentili, che ci portano a noi lobotomizzati televisivi il ricordo perduto, o quasi perduto, delle cose essenziali.
In effetti quel castello, non ha molto senso dal punto della strategia militare. Austero e arroccato forse combatte una sua guerra particolare. Si dice che mai abbia dovuto affrontare un assedio o una guerra, nel senso esteriore del termine. I Cavalieri degli Challant combattono la loro battaglia interiore. Quella sul piano  nero, della materia vivente. Eccitante, inebriante, cieca vitalità, cavernosa e scura come la cavità da cui provengono gli esseri viventi. La materia ricalca perfino nel suono la matrice e la maternità. Vita e morte si generano in un unico respiro vigoroso. Il più grande parto è stato quello della creazione o del manifestarsi delle cose. Va accettata in tutto il suo pathos, dolore e sentimento. Riconduce all'umiltà, all'humus, alla terra dunque. E come la terra è nera. Nell'accettazione sta la vittoria cavalleresca. Nel respingere i demoni del desiderio di purificazione.
Sul piano del bianco, quello della purificazione dell'essere manifestato. Aspira al rientro, ma non può desiderarlo. Si macchierebbe, con questo desiderio, di una colpa che comprometterebbe la transizione verso la luce. Il distacco dalle passioni terrene che ci avviluppano è una Grande Guerra. Nell'agire interiore contro il desiderio stesso di liberazione sta il suo trionfo. Le conseguenze delle azioni lasciano indifferente questo Cavaliere. Combatte perchè sa che questo è il suo dovere, la sua Legge, il suo Dharma. Ma non gioirà mai dei successi, nè soffrirà mai delle sconfitte. Gli sono inaccessibili.
Sul piano del rosso,  quello del fulgore di chi coopera con la creazione, con il manifestarsi del Bene, conosce armi e durezza dello scontro. Ma conosce pure perfettamente le Leggi della Cavalleria spirituale. E quindi, benchè maneggi armi simili a quelle dei suoi avversari da queste non ne viene contaminato. La mano che colpisce con la spada, di lama o di punta, ne resta contaminato, offeso, ferito, proprio come la sua vittima. Il fulgore dello spirito immette nell'azione una purezza incontaminata, un fuoco purificatore, una fornace, un crogiolo da cui usciranno solo luce e bene, armonia e oro. Se proprio volete, anche benessere materiale, ma il totale disinteresse rende impossibile ogni calcolo oscuro, tenebroso, economico.
Si potrebbe anche assimilare  questi piani dell'essere sia in sequenza apicale, sia orizzontalmente. Sono le modalità di manifestazione degli esseri senzienti, i te guna, nella tradizione induista. Tra i significati che questo termina possiede in lingua sanscrita, vi è quello di 'corda' e di 'colore'.
Altrettanto bene si adatta a questi tre colori, la condizione dell'essere senziente e umano in particolare, la tripartizione improntata ai suoi rapporti con il Tempo; giacchè ogni essere manifestato si attua nel Tempo, e dunque con esso instaura un rapporto. Siamo debitori a S. Devi di questa precisazione dottrinale. Gli esseri "nel Tempo" (nero), quelli "fuori dal Tempo" (bianco) e quelli "contro il Tempo" (rosso).
Il vecchio Conte ci svela i suoi misteri, i suoi segreti a noi pellegrini in fuga su questa terra. Nel suo sangue scorrono ancora vivi i rivoli delle sorgenti, prima di essere un Challant era un Bosone, un Bouvin, un  guerriero franco, la Provenza e la Borgogna nel sangue, la legge merovingia nel cuore, il sangue della guerra santa gli era famigliare. Aveva combattuto i mori, prima divenire a scorre tra le valli alpine occidentali. Nessuna meraviglia quindi se possiamo vedere i colori del suo casato riflettersi in quelli dell'Ordine dei Guerrieri-Monaci più noti del Medioevo, quello dei Templari.


La loro fine, se di questo si può parlare, ha segnato la fine di un'epoca. Avevano una spada propria ed un'economia propria. L'indebitato Filippo il Bello, Re di Francia, li processò e li condannò al rogo, grazie anche alla colpevole responsabilita della Chiesa di Roma.
La loro guerra, quella dei tre guna, non avrà mai fine, e ciclicamente è destinata a riaffiorare. Il vecchio conte ci commiata, ma prima di ritirarsi nelle sue stanze, ci lancia uno sguardo sornione e furbescamente allusivo. Gli occhi si fanno piccoli e sprizzano astuzia e saggezza, il suo volto si illumina, e non ci sembra neppure più cosi curvo e vecchio. Sembra ora senza un'età precisa. Si vede che ha giocato col Tempo.
Noi riprendiamo la via del ritorno a casa, sui monti non distanti, paghi della giornata trascorsa  da ospiti presso il Visconte di Challant, maestro nelle leggi della 'Cortesia' che qualcosa ha da dire ancora oggi.


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