giovedì 30 agosto 2018

Il mistero dell'abete.

Non so come accada - e che senso ha chiederselo fino al tedio di sè e degli altri?  interrogarsi sul fascino del pino? pino o abete qui sonointercambiabili - ma si sente, dopo una convivenza nella solitudine dove le grandi voci scendono a confronto, finalmente, nel silenzio dei monti, quando gli uomini tornano alle loro occupazioni. E noi restiamo soli. Dopo essersi scrutati, dopo aver vissuto insieme ne tempo due esseri. Un rapporto intenso. Si avverte non ci si parla. Il mondo parla tanto, troppo e non dice che di rimpianti e illusioni. Meglio ritenere le parole per le grandi occasioni, cosi diventano poesia, canto. Parole ad alto peso specifico.

Ecco ad un certo punto ho avvertito la stranezza dell'abete. Una stranezza che non si nota perchè e fin troppo evidente. Ma questo albero è diritto, s'alza al cielo sempre diritto, o quasi sempre. Ha naturalmente un portamento metafisico.

Ortogonale è virile. Rettitudine che non può sfuggire a se stessa. Elevatezza come aspirazione, come tendenza alla fruizione celeste. Puntatore che indica il cielo, la meta elevata.

Accostatelo ad un noce o un frassino, un acero o un ontano, una betulla o un faggio, vive di una linearità ascendente unica,  netta e pulita, sconosciuta agli altri tragici alberi che si dibattono laceri tra terra e cielo. Annaspano e soffrono a mezz'aria, l'abete no. 

Mi par strano che le cose siano cosi facili. La sua via non può essere quell'idillio. A volte le punte si sdoppiano. La crescita si arresta. Il radioso cammino segno nervosamente il passo. Nascono incertezze sul dove andare, il percorso, l'esistenza attraversa il dolore di una lotta interiore. Allora a goderne maggiormente sono i fianchi, i rami laterali e più bassi. La sua chioma si fa più  tonda senza però mai tradire la gerachia del concetto che in alto parrivano sempre in pochi. E meno male che è così. Questa piccola e semplice imperfezione lo umanizza, più facile ora riporre fiducia in un fratello che ci assomiglia. 

A volte intervengo, ed elimino la competizione, la guerra fratricida cosi speso inevitabile. Taglio. Lascio quello più centrale, che a volte è anche il più robusto, e non passa molto tempo che mi dà una risposta collaborativa, di gioia per essere andato oltre l'ostacolo. A me resta il dubbio se ho fatto bene, dopo tutto ho dovuto recidere, asportare linfa, profumi resinosi che col tempo seccheranno al suolo. Ma soprattutto, la grande questione rimane, sotto le ceneri, per quale processo si è addivenuti che i rami apicali, l'aristocrazia, anzichè collaborare tra loro a lode dall'Ordine, hanno sviluppato una inimicizia intestina cosi collerica e distrutiva, perchè si distrugge? Forse perchè si ricrei, ma intanto vi è di mezzo la qualità della coesistenza. E si elude: ma quanto sono profonde le radici del bene e del male?
 
Anche nel nostro destino di popolo vi è stata recente una guerra fratricida, cruenta e crudele. Lascia ferite quasi inguaribili, quando va bene cicatrici, memento di sofferto ritorno. Impariamo almeno a conviverci, almeno inizialmente. Ma quando verrà la cesoia del Giardiniere demiurgo a liberarci dai legacci che imprigionano il nostro edificio, e ripreneremo la nostra vocata salita verso l'alto?
Ecco la dualità far capolino, e decisa si impone: o cresci snello e deciso a grandi passi, ma con quali fragilità? oppure la tencia con cui combatti ti rafforza, ma al prezzo di attardarti sul tuo limitato tempo del nostro cammino.


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