venerdì 20 maggio 2011

La morsa e la radura.





Spesso nei lavori da svolgere qui al Tracciolino, piccole cose intendiamoci, lavori che mi trovo da solo a svolgere, spesso due mani non mi bastano. Perlomeno, se ce ne fosse una in più sarebbe di grande utilità. Ma che faccio chiamo un amico tutte le volte che devo radrizzare un ferro?

Gigi, pazientemente, mille volte mi ha suggerito che mi ci voleva una morsa. Ma io, testone, e pigro, come se, una parte di me, non volesse rendermi la vita più facile., non lo ascoltavo che ditrattamente. Chissà dentro di me con quale segreto, sobillatorio e cospirativo, per avere una scusa, un alibi perchè le cose mi potessero sempre andar male.

Rotti gli indugi, l'altra mattina, metto insieme l'occorrente.


Tre tavole di castagno, di spessore robusto, più di un metro lunghe, recuperate dal vecchio solaio. Da un rigattiere, per una quindicina di euro, mi sono procurato una veccia morsa. Quello moderne costano di più, e neppure hanno la robustezza e la funzionalità meccanca di quelle vecchie. Il telaio del banco da lavoro l'ho messo insieme, con ben poca precisione, tagliando e saldando diversi pezzi di ferro che un amico mi ha procurato, erano da pali e segnalitica abbndonati in cantieri stradali. Mi ha detto: "Ti servono?"
"Si, ... forse...", faccio io.
"Prenditeli".

Quando li ho portati a casa non ancora sapevo a cosa mi potesero servire. Spesso accade dalle nostre parti, non è per taccagneria. Ma in montagna non si butta niente di ciò che si dispone: portarli in alto conferisce già di per sè un valore anche agli oggetti che ancora si deve scoprire a cosa servono.

Ora ne vado fiero. Ho ingrassato la vite di scorrimento della slitta, oliato la morsa, ed un antico colore bleu è riemerso dalla ruggine. Funziona perfettamente, come una Bugatti d'epoca. La considero la mia mano destra. Quella che mi aiuta, come un'amica. Mi dà una 'mano', ed io riesco a lavorare con le mie due.

Mi facilita la vita, in qualsiasi momento operoso. E' entrato con eleganza e prepotenza, a buon diritto a prendere il suo posto, posto che le spetta, posto d'onore di un utensile antico, da fabbro ma versatile. Una presenza positiva, disponibile ad offrire collaborazione in ogni momento che la necessità lo richieda.

Sotto il banco si vede un borsone. Ricolmo di fieno maggese, tagliato da pochi giorni, profuna come una ghirlanda di fiori. Sono i fiori, di mille fogge e colori. Odorosi solo come la tavolozza della privamesa a maggio sa proporre.


Ho aperto con la nuova motofalciatrice a barra una strada tra l'erba che intanto ha raggiunto l'altezza delle ginocchia.

L'estate scorsa era ancora, per me, qualcosa di intrusivo, troppo tecnologico. Mi spaventava. L'inverno l'ha passata all'aperto praticamente. Ce la siamo comprata facendo un certo sacrificio economico. Non sapevo ancora se ne valesse la pena...
Ora, la uso quasi con quotidianità, non la sento più estranea. E' la cosa giusto nel momento giusto. Non appena l'erba si fa alta, ne profitto. Non aspetto che sia l'aspetto selvatico dei prati ad impormelo. La prendo d'anticipo.
Ed anche il prato ben rasato come un tappeto da golf, o quasi, con eloquenza dice a tutti i passanti che quii la montagna ancora vive, qai al Tracciolino ha ancora delle storie da raccontare, fiera testimonianza dell'antica simbiosi tra l'uomi e la montagna, antica quanto il mondo, e sempre più attuale. Storia altrettanto antiche di profumano di eternità, di immutabilità del destino umano. Storie che richiamano con forza dalle distrazioni frenetiche delle città, quasi morbose.
Me ne sono convinto quando l'altra domenica quando un camminatore che sembrava l'esperto di un gruppetto di turisti, passandomi vicino e poi andando poco oltre, lo odo affermare con una certa sicurezza: "Di qui si scende a Donato!".
In realtà, per di lì si scende solo ai prati sottostanti, non si va da nessuna parte, la strada d'erba che avevo appena aperta, mi serviva ad attingere erba e ad aprirmi un varco allo scopo di foraggiarmene dell'altra altra. Aprire così un varco, una radura di civiltà, luminosa, uscire dal bosco, regno incontrastato della 'selva', per lasciare un segno bello e degno della presenza umana.

Di lì attingo alla ricchezza fiorita della primavera, e spezie e incensi d'Oriente mi accolgono, li raccolgo nel borsone solo dopo pochi giorni, giusto il tempo perchè i profumi si fissino, ma non abbiamo il tempo di disperdersi, mi porto in stalla, una certa quantità alla volta, un poco tutti i giorni. Mi sembra di essere un antico monaco che con sapienza umile coglie, da ciò che Dio porge agli uomini costantemente, le erbe per la sua farmacia, per i suoi lambiccanti elisir, tonificanti e medicine del corpo e dello spirito.
Non abbiamo farmacie noi. Molto più modestamente, un prosaico gesto di mantenere gli animali, ma a me pare come in un simposio orfico, riempio le mangiatoie, e guardo il piacere delle capre che gustano queste primizie. E la loro gioia è anche la mia.

Vallo a spiegare al distratto e frettoloso passante...


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