lunedì 4 aprile 2011

Le parole fanno il loro giro, poi "ci prendono in giro".






Sembra un gioco di parole, ma dopo aver fatto il loro giro, sospinto dal brioso vento dei cambiamenti umani, le casualità più bizzarre della storia, ci ritornano, ma sono cambiate. Non sono più loro, verrebbe da dire, che dopo aver fatto un lungo giro, durato anni, ci prendono in giro.
Quando ero un bimbetto, la guerra era appena finita. Avevo ancora negli occhi i vividi racconti delle testimonianze vive e accese degli eventi di guerra.
La mamma mi raccontava che nella strada su cui si affacciava la finestra del nostro palazzo, popolare, case costruite nel deprecato periodo socialista nazionale che, con qualche confusa molto aveva fatto per il paese in soli venti anni; in quella strada aveva udito e visto, in quegli ultimi giorni drammatici di guerra, soldati cadere a terra, forse tedeschi, il crepitare delle armi. Il terrore delle vendette personali che come viscerali inferi riemergevano a lordare la grande tragedia del nostro Paese, Roma e la latinità suonavano amari echi di menzognera propaganda, e più grave ancora l'Europa.
Come due giovani donne colme di vita, stretta in un abbraccio ferreo, un abbraccio che ricordava gli immortali imperatori di nobile stirpe guerriera e l'idea di Imperium romanum, che come un vascello dorato carico di sapienza antica era approdato sulle sponde italiche adornando di gentilezze i loro modi.



Un inquilino del nostro palazzo faceva come tutti da noi l'operaio, un tipo taciturno, ricordo sua figlia, Paola, una bimbetta semplice, solare, con le treccine ai lati della nuca, bionde. Occhi grandi, forse azzurri, o forse il ricordo li dipinge così. Piena di energia. Era facile invaghirsi innocenti di quel volto lindo e felice.
Suo padre, un bel giorno di quelli in cui la storia sembra prendere una improvvisa accelerazione, silenzioso e ieratico, scese le scale con passo solenne, abitava uno degli ultimi piani. Con la compostezza ieratica di chi stava compiendo un gesto scultoreo, incisivo, scendeva dalle scale, gradino dopo gradino, senza proferir parola, nelle mani impugnava l'asta di un drappo rosso, rosso che il sangue arterioso, leggero al volo, raggiante di un vermiglio che il sole dell'Avvenire quasi indorava. Stava coi russi. V'era stupore, nessuno sapeva niente o quasi. Custodiva nel più assoluto segreto quella bandiera in casa, chissà riposta in qualche angolo ben celato. Ma quello era il suo giorno.
Lo vedo con le parole di mia madre, raggiante come un eroe, mezzo vero e mezzo attore recitante. Quelli erano i giorni della Speranza, della "sua" speranza. E la speranza era l'energia dei suoi occhi.
Ricordo che si diceva di una donna che le avessero tagliato i capelli. Ed io pensavo a quali turpitudini si fosse abbandonata per meritarsi questo.
Per la strada, ogni tanto passavano colonne di carri armati, ed io correvo, pantaloni corti, e ansimante di curiosità, a vederli passare. Roboanti acciai dipinti di verde oliva con una stella biancha cerchiata. A me piaceva soprattutto perchè facevano tremare il selciato stradale. Come quando i ragazzi vanno su certi ponti in acciaio e cercano, saltando per fare più peso possibile, le vibrazioni della struttura.
Negli anni che coatti la nuova patria, nata da una sconfitta, ma che tutti fingevano o credevano invece rinata, riscattata, ci organizzavano in cori scolastici, prove su prove, per celebrare i cento anni del Paese, e giù con frasi del tipo "chi per la Patria muor, vissuto è assai..." oppure "si scopron le tombe, i martiri nostri son tutti risorti...", coi Mazzini, coi Garibaldi e coi Cairoli, giusto perchè, questi ultimi erano glorie locali. In quegli anni tanti bimbetti come me parlavano il dialetto, la lingua di casa, combattevano un'altra guerra patriottica, una pulizia etnica della lingua, usare espressioni come "vieni su" o "vieni giù", invece degli italianissimi "sali" o "scendi", sembrava un reato di lesa maestà.
Ho fatto del mio meglio per imparare. Solo che ad un certo punto, con la modernità, hanno cominciato a dirmi che era tempo di imparare a usare "get up", "get off", "away", eccetera. Solo poco prima era un errore da sottolineatura rossa doppia se avessi detto, o peggio, scritto che qualcuno "mi ha tirato dietro un sasso".
Su altri versanti, sorgevano dibattiti sull'eccessivo numero di questi dialettofoni, per cui una riduzione di questi avrebbe semplificato l'operazione del "parlar forbito" di massa. Solo che la questione demografica - prolifici e cafoni - comportava una parola magica, molto americana, "pianificazione famigliare" (family planning) che andava ben oltre all'orizzonte post bellico del parlar corretto anti-italietta (peraltro assurta ad Impero, che i fatti libici moderni al confronto rinnovano vergogna), la moderna italianità andava in cinquecento e sulla 'vespa', eppoi cominciava a guardare la televisione! Vuoi mettere? La vera madre lingua televisiva? L'essere in pochi e stare meglio, alla maniera scandinava (poichè parlare di razza era ed è tabù, nel frattempo ci si era dimenticati che noi siamo sostanzialmente latini), modello di benessere sociale. In realtà, si inaugurava per infausto percorso che oggi assaporiano in tutte le sue degradanti sfumature finali, della separazione tra sessualità e riproduzione. E la famiglia numerosa (i figli come Divina Provvidenza) la fede nuziale per la Patria, ferri vecchi per nostalgici patologici. E giù con le pillole del giorno prima e del gorno dopo. Sicchè abbiamo cominciato a riempire cassonetti di feti abortiti, o chimicamente o meccanicamente prevenuti (meglio prevenire che curare, no? si dice cosi delle malattie) e via con le culticolori e multiforme coppie di fatto. Con un'operazioncina chirurgica, si riscrive la carta di identità, un uomo "diventa" una donna, e si sposa ed aspira ad adottare figli (e guai a non adeguarsi, si verrebbe sanzionati nei più Alti Consessi). Poi ci vengono dire che senza l'apporto di extracomunitari con ci si salva, chi ce li pagha i contributi pensionistici? E i lavori che i nostri giovani non vogliono più fare? Allora era meglio quando eravano in tanti, e almeno tutti italiani!
I linguisti e gli intellettuali del momento rivendicavano la dignità "popolare" dei dialetti, vera lingua, da cui si era espropriati dalla cultura delle classi dominanti. Canzoni folk e riscoperta delle "radici" a spron battuto. Dai licei alle università, il parlare come il popolo era un arricchimento di coscienza.
Premi Nobel ai letterati popolari che riscattavano un silenzio di oppressione millenario. Poi ha assunto la forma "di genere", altra tardiva conseguenza americana, o semplicemente moderna, "gender". E' come se non avessimo ancora smesso di perderla quella guerra! Forse avevano ragione a chiamarla "Totalkrieg"!
Naturalmente romanità e latina, si sa van di pari passo. Prima il dialetto viene italianizzato (grazie soprattutto alla televisione, quindi italianizzazione democratica), poi innestato di barbarismi anglofoni, alcuni decisamente involutivi. Poi l'esaltazione gauchiste come autentica lingua di popolo ed infine demonizzato. Avete certamente notato la pubblicità per il 150°, gli italiani che non si capiscono tra loro e trovano finalmente nell'Unità la lingua che permette di capirsi tra di loro. Una pubblicità, appunto! Costoro sono gli stessi che difendono l'italianità con inoculazioni massicce di immigrazione selvaggia (pardon, umanitaria)!
Poteva mancare in questa 'encomiabile' corsa al disfacimento l'abolizione assoluta dello studio della lingua latina nelle scuole pubbliche di base?
E, il meglio del meglio, il non plus ultra, la Chiesa Cattolica Romana poteva insistere in quel vergognoso immobilismo oscurantista di continuare in orazioni che uguali si ripetevano dal Medioevo? Stiamo scherzando?
Come pugili suonati, storditi sul ring, da parole che vanno e vengono, strutturano e destrutturano, fanno e disfano, oscilliamo e con difficoltà riusciamo a stare ancor in piedi! Qualcuno sospetta che l'arbitro ci stia giantando, e siamo vicini al fatidico 10! Altri pensano credono che siamo già al ko.


La Speranza è l'energia per resistere e per dar senso ai nostri giorni, qui sul Tracciolino. Qui ci sono prati per pascoli, baite da ristrutturare, spiriti da rigenerare, germogli e vita, acque di fonti cristalline, spiriti guerrieri da guarire. Il pane lo si fa nei nostri forni. Le donne ricercano la loro strada (ri)generatrice e materna. Le capre dànno latte. Il gallo la sveglia. Il vento sussurra le parole dell'Eterno. Lo stiamo proponendo a tutti coloro che vogliono sperare che non siamo ancora al ko, a tutti coloro che han preso abbastanza cazzotti, ma che riescono anche a darne ed a combattere, a tutti costoro ci rivolgiamo, uniamo a rinnovate schiere i nostri spiriti.
Condivisione, fieri guerrieri a respingere il consumo che ci consuma in un vortice di parole che vanno e vengono senza meta. Cerchiamo la meta, solida e solidale, e con questa facciamo barriere e muro. Cadere sul muro è onorevole, disperare no, è morire anzitempo, vivere una vita che è una morte anticipata.
Cosa vogliamo fare? Proposte? Non è la Terra Promessa, se la vogliamo intendere in un senso profano. Quella ha già creato lutti a sufficienza. Ma come 'ginnasio dello Spirito', "Centro", si, quello si, potrebbe...







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