lunedì 12 marzo 2012

Oplà, si vive!


Verso le 13 e 30 di oggi, lunedi 12 marzo 2012 sono nate nella nostra stalla due caprette.


Un parto gemellare. A prima vista direi, con ragionevole approssimazione, che si tratta di due femmine. Il che le mette al riparo dalla prossima e ventura macellazione pasquale.
Singolarmente, una delle due, la seconda uscita, presenta un bellissimo ciuffetto bianco in cima alla testolina. Forse retaggio genetico di qualche antenato dell'albero genealogico di Gioconda, la mamma. Il padre è Adolfo, il caprone nostro del gregge, nerissimo, ma non si può escludere che anche ci sia un antenato bianco tra i progenitori di Adolfo. Nessuna infatti ha un pedigree, nel senso che viene inteso negli allevamenti intensivi moderni a tecnologia spinta.



Le nostre capre sono tutte meticce. Ciò non vuol dire che si ignorino i sani principi razziali che presiedono, come poderosi bastioni assiomatici indiscutibili, l'attività di qualsiasi pastore. 
Fa parte della prassi quotidiana quella del pastore o allevatore di intervenire a salvaguardia degli elementi migliori che caratterizzano la razza, sia essa caprina, ovina o bovina, o altre specie di animali ancora. Una buona fattrice, con abbondante latte, state pur certi che godrà di un occhio di riguardo, e il pastore se la terrà ben stretta. Se dovrà liberarsi di qualcuna, venderla o macellarla o altro, sa bene lui quale prendere e destinare a quello scopo. Lo stesso, e forse a maggior ragione, si verifica per i maschi, i becchi.

Il soggetto debole, difettato, carente, malaticcio non viene certo favorito. E non è solo questione economica. Da queste scelte razziali dipende il futuro, la forza, e la salute dell'intero gruppo. Assomiglia molto a ciò che Nietzsche rimproverava al cristianesimo, col suo rincorrere 'gli ultimi', salvo le sporadiche manifestazioni iniziali di Giovanni e del frangente, diciamo così vitalistico, legato al Rinascimento. Forse dovremmo essere un po' meno affrettati nel liquidare il termine razza dal nostro dizionario. Anzi, oggi addirittura pare essere uno di quei termini tabuizzati, demonizzati.Quando ci si riferisce a qualcosa di simile alla razza, si preferisce usare l'espressione più neutra, più politicamente corretta, che esime da eventuali questioni di revisionismi storici, di 'etnia' o 'gruppo etnico'.

Tuttavia nella locuzione 'pulizia etnica', non è che ne esca con un'immmagine proprio edificante.

Eppure secondo Nietzsche, questa perdita del principio razziale - fino a giungere ai tempi nostri a cui si potrebbe  ascrivere il motto 'bastardo è bello', e si inneggia alla società multirazziale e del meticciato certo culturale, ma anche di sangue ovviamente - sta alla base di quel processo che egli chiama di décadence. In cui il termine razzista o razziale, lungi dall'essere ordinaria cura 'pastorale', è visto come un insulto, un improperio da riservare per le occasioni solenni.


Non in questa sede si possono affrontare questioni più intense. Ci basterà solo qui accontentarci di un prudente sollecito a non scartare troppo affrettatamente dal linguaggio della modernità il termine 'razza' e i suoi derivati, poiché 'improperio' non è. Quest'ultima pare faccia riferimento a in, contro, pro-operare. Quindi un semplice invito a non passare troppo in fretta ad agire d'impeto, dal cuore, intelletto, alla lingua, come dire: pensaci due volte prima di fare, operare o dire (la condanna a priori della razza).
Tuttavia non per questo lo slancio vitalistico, le nascite primaverili, il risveglio cosmico, non è che debba necessariamente condurre a facili entusiasmi, ottimismi di maniera. Come è noto la nascita è un fatto anche luttuoso. Solo chi nasce muore! Il ciclo lo richiede. E' cosa necessitante. Semmai per noi occidentali (e moderni) è più difficile il passaggio ulteriore. 
Che la morte sia legata alla vita passi. Ma che sia successivamente legata alla rinascita, qui qualche difficoltà la incontriamo. Forse. Non per i greci arcaici, non cosi per Esiodo, Teognide o ancora Anassimandro ed Empedocle.
Eppure l'uscita nel manifesto (iniziata forse in fase intrauterina, per cui pensiamo bene alla questione dell'aborto democratico di massa e come anticoncezionale, ammesso dalla coscienza moderna, un silenzioso sterminio) si realizza nel pianto, nel dolore, e nell'incertezza e fragilità della vita.Quasi che vivere sia una forma di malattia! Non ci si regge in piedi! Deboli e soccombenti. La mamma lecca, guarisce, accudisce dalla vita, e non smetterà mai di farlo. E quando l'ora giunge è ancora la mamma che noi mortali invochiamo in aiuto.
Quindi è un oplà! Un coup de théatre, gioco di prestigio, esercizio circense. Si vive! Suoni la banda. Si inviti a festa. Comincia il gioco della grande illusione, a cui si verrà strappati ancora con un azione forte e dolorosa. Una volta quei fanatici di cristiani la chiamavano 'hac lacrimarum valle'. Divenuto meritevole di superstiziosi scongiuri, causa l'edonismo imperante a senso unico, come un dogma tra i più inossidabili.
Oplà si vive! Inizia il gioco (lila: लीला: passatempo, gioco) della grande illusione! Della pòlis, degli affetti, degli affaccendamenti illusori pubblici e privati . Da qui trae origine l'inestirpabile (bisogno di liberazione)! Da qui l'a-mor (senza morte) che unisce le cose visibili, al di là delle ingannevoli parvenze, al suo Principio (unico e divino).




 Oplà! Si vive! Evviva! Ben atterrate sul pianeta! Tutta la vita vi sta dinanzi...








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