venerdì 3 giugno 2011

Archetipi popolano il Tracciolino.




Un fresca mattina di qualche giorno fa, prima che iniziassero queste noiose piogge di tarda primavera, rischiano di far marcire i primi tagli di fieno, mandandolo sprecato, ho accompagnato come sempre faccio le capre nel recinto, da poco predisposto. Il sole non era ancora alto, il prato e il bosco profumavano ancora del suo alito di riposo notturno.
Mi sfugge l'occhio e vedo la rete agitarsi. Strano. Osservo meglio, un po' più in là, e mi accorgo che una capra, non delle mie, stranamente si è impigliata nella rete. Sarà di qualche vicino.
Mi avvicino e mi accorgo che si tratta invece di un giovane ma robusto e vitalissimo capriolo che fuorioso si dimena con le corna irrimediabilmente legate ben strette. Più si dibatteva per liberarsi, e più di imprigionava. Quello è il momento in cui non c'è spazio per la ragione.
L'uomo, il nemico di questo Principe della Natura, si avicinava a lui. Il pericolo non era stai mai così vicino.



C'è da dire, però che neppure io non ero mai stato cosi, a tu per tu, con una animale selvatico, cosi noto, che spesso ricorre nei racconti dei montanari e dei cacciatori di montagna. Come massimo mi era capitato di vederne qualcuno a distanza, senza mai avere l'opportunità di stringere una vera relazione da vicino.
Lui era spaventatissimo. Il cuore gli batteva forte, pareva un tamburo. Il respiro ansimante pompava aria con un ritmo forsennato, spaventoso. Si dimenava con una forza insospettata. Le corna impigliate nella rete, mi facilitavano il compito di immobilizzarlo. Ma era in grado di rialzarsi come e quando voleva, colpirmi con gli zoccoli da lasciarmi i segni.
Con me avevo dei guanti da lavoro, e una corda che avevo usato per le capre poco prima. Se per legarlo avessi afferrato l'animale per le quattro zampe, usando le due mani, avrebbe avuto modo di divincolarsi con la forza del collo e delle spalle. In ogni caso, una mano mi sarebbe servita per stringergli la corda intorno alle zampe. Ero decisamente impacciato, per non dire in difficoltà.
Cerco di bloccarlo, aiutandomi col ginocchio col quale lo premo contro la terra umida e anche un po' paludosa, eravamo prossimi a una 'moia', terreno non ben drenato, posandoglielo tra la spalla ed il collo. Riesco a fargli dei giri con la corda intorno alle zampe. Non riesco ad annodarle due a due. Se lego le prime due anteriori, con quelle posteriori è in grado di difendersi con efficacia. La bava bianca fluiva sulla terra che, umida, andava prendendo la forma del suo viso. Riesco a fare alcuni giri di corda, ma non riesco a fare nodi: troppo corta. Con la sinistra tengo la corda tesa, con la destra telefono a qualcuno perchè mi si dia una mano. I primi ad accorrere sono dei pompieri, poi un'auto attrezzata del Servizio volontari per il soccorso di animali selvatici.
Nel frattempo, prima che arrivassero, è passata una buona ora. All'inizio tentaa con una tenacia incredibile di non arrendersi. Ed io neppure. Si sarebbe impigliato ulteriormente nella rete, a rischio di stringersela intorno al collo. Ma faceva bene a temermi. Per la mente balenavano idee di predatore, di cacciatore. Pensavo che normalmente sarebbe finito in un freezer a frollare e poi, condito con una polenta fumante, le sue carni avrebbero riempito il piatto di qualche buon gustaio, o qualche viaggiatore in una trattoria del posto. Scacciavo questa idea, ma anche mi attraeva. Ma avevo appena chiamato dei soccorsi, mi stavo comportando in modo 'politicamente corretto', come mi sarei giustificato con loro? Eppoi, con me non avevo un coltello che sarebbe stato quantomeno indispensabile all'operazione 'normale'.
Poi, è subentrata una certa stanchezza. Il respiro si era placato. Gli occhi meno stralunati dallo spavento. Forse cedeva per stanchezza e rassegnazione.
Ho così cominciato a guardarlo con calma. Ho visto che era un maschio di tre o quattro anni, il suo pelo era in muta. In parte beige chiaro rinnovantesi, e in parte ingrigito dall'inverno. Che avevamo trascoro insieme. Tra nebbie fredde, nevicate e gelo. Non so perchè, ma ho cominciato a parlargli. Ad abituarlo alla mia voce.
Il telefono squillava, gli aiuti dovevano comunicarsi la posizione, chiedermi della località, ed altri dati, nomi e cognome, vie, notizie sulla situazione. Facevo loro fretta, dapprima perchè anche io cominciavo a sentirmi stanco. Ma anche mi attraeva quell'intervallo di tempo, nell'attesa degli aiuti, sapevo che poi l'avremmo liberato e non ci saremmo più rivisti. Ma lui questo non poteva saperlo...almeno così credo.
Gli parlo per calmarlo. Fargli sentire la mia voce, quella del suo nemico eterno ed eternamente temuto, non aveva molto senso ma sentivo di doverlo fare. Lo accarezzavo lungo il collo. Gli toglievo le mosche dagli occhi e dalle narici.
Era come se due mondi lontanissimi per un attimo di tempo sospeso, si potessero toccare, attimo irripetibile. Lo toccavo forse per convincermi che era vero quell'attimo. Che così avrei potuto trattenerlo nella mente. Era un mio vicino di casa, in fondo. In quell'attimo tangenziale, ti chiedi della sua e della loro vita, e mi chiedevo della mia e della nostra. Tanto distanti e tanto vicine. In quell'attimo si realizzava una convivialità miracolosa tra il cosiddetto 'civile' ed il cosiddetto 'naturale': tra ''natura' e 'cultura'. Le nostre due esistenze si compenetravano. Io entravo un pochino nella sua vita misteriosa, segreta, affascinante di una esistenza capace di osservare la Legge divina che per lui era stata stabilita, molto meglio di quanto non sappessi fare io per quella che era stabilita per gli esseri umani.
Diana, Artemide virginale, mi baleva sotto gli occhi. Archetipo del non umano, della potenza creaturale incontaminata, tra le mani di un essere impuro e corrotto, ma che disperatamente chiedeva fratellanza, comune figliolanza spirituale, sia pure su gradi diversi della Creazione. Si sarebbe ricordato poi di me? No, forse no. Non posso affermarlo però. Lo spirito di Atteone non mi era mai stato cosi vicino. L'amore e la gioia incontaminata mai così a portata di mano. Lo struggimento di desiderarla, ma di non poterne far parte. Quasi avrei voluto che mi rapisse una parte della mia anima. Forse un po' così è stato. Atteone è vittima della fascinazione virginale, potenza immensa della Natura, Manifestazione primordiale del divino. Credo che Bruno la scorgesse, da buon visionario qual'era, col suo sangue passionale di meridionale, nolano, nel volto eburneo della vergine e iperborea Regina Elisabetta, immacolata Regina e perciò Madre di tutti, cui dedica gli "Ero(t)ici Furori".
E, ancora da quelle parti, ancora Atteone rivive nelle fontane della Reggia casertana, tra l'umida terra paludosa della 'moia' in cui mi trovavo e le regali fontani della più autentica nobiltà Borbonica. Sogni di grandi monarchie oramai divenute inattuali, nel crudele e sordo tempo moderno. Tuttavia, ancora capaci di pensare alla Regno politico in simultaneità con il Suo Regno. Cose che i politicanti moderni non saprebbero nemmmeno immaginare, ingoiati come sono dal gorgo, o dalla Gorgone, del loro orizzonte profano.
Così rapito, mi deliziavano questi pensieri. Ero certo che sarebero rimasti dentro di me, come perle auree, esperienza al limite del comunicabile. Esoterica. La potenza della vergine natura, nella Terra umida della Vergine Nera che qui si trova ovunque, era lì ad insegnarmi segreti da eletto, gioie di connubi magici per iniziati, tangenze astrali.



I suoi occhi si riprendono. Tornano a combattere vitali, in antagonismo con l'umano, dopo la grande Pace dell'Armonia. Preconizza un rumore lontano. E' il camion dei pompieri. Brave persone, ma scendono dal camion con il fare di marines in assetto di azione. Attrezzati di tutto punto.
Fanno domande, che non riesco ancora ad afferrare. La mia mente fatica a capire, deve ancora rientrare dal suo viaggio iniziatico. Sento le gambe. Mi accorgo che stanno scattando foto. Il visibile si riprende quello che gli spetta.
Lo snodano dalla rete. Odo come voci lontane che mi lodano per aver 'salvato' un animale selvatico, per il gesto sensibile, civile, ecologico, 'politicamente corretto'. Sono esterefatto, stranito, forse un po' stupefatto, con quel che c'è di narcotico, cioè di trasognante, in questo termine.
Ne sono certo. Non mi capirebbero se cercassi di spiegare loro che il beneficiario della 'salvezza' quel bel giorno di primavera ero io.
Quei bravi ragazzi mi avrebbero dato una pacca sulle spalle e mi sarei meritato i loro sguardi buoni di ammirazione, mentre osserviamo l'animale saltellare libero, felice, ebbro, tornare al suo Regno.
Mi viene da scrollare la testa. Le parole non servono più. Ogni balzo innocente e puro del capriolo porta con se un pezzo di me, ogni balzo lascia sul terreno una lacrima di commozione, per quello che i nostri occhi fedeli e rapiti hanno potuto vedere, lacrime che indefinitamente inumidiscono la Terra.







1 commento:

  1. L'incontro con un animale selvatico lascia sempre momenti suggestivi, a maggior ragione se così ravvicinato come il tuo. Bell'incontro e bel resoconto...
    Ciao
    Indio

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