Tra le singolarità
che si incontrano nella storia di san Martino, molto popolare e diffuso
in tutta Europa dai primi secoli della cristianità, non ultima va
ricordata la ventura di imbattersi in un eccellente, per sensibilità,
interprete. Mi riferisco alle pagine che John Ruskin dedica a Martino nella sua bibbia d'Amiens.
Un
giorno di rigido inverno, pressapoco come in questi giorni, usciva a
cavallo da Amiens, quasi due secoli prima della conversione di Re
Clodoveo, un soldato romano avvolto nel suo mantello di cavaliere, dalla porta della grande strada romana che conduceva da Lione a Boulogne.
Si può supporre che uscendo dalla città, il giorno invernale freddo, gelido il vento che spazza la campagna da est, ci si soffermi "qualche momento in questo luogo a sentire il suo soffio", in quell'inverno dell'anno 332 mentre molta gente moriva di freddo nelle strade di Amiens. In quel momento preciso, il cavaliere romano "incontrò un mendicante nudo, tremante di freddo, e, non vedendo altro mezzo per ripararlo, trasse la spada, divise il suo mantello in due e gliene diede metà.
Commenta
Ruskin: "Non un dono che manda in rovina chi lo offre, neppure di una
generosità commovente". Rifugge la platealità del donare tutto intiero il mantello, immagine cara a certa apologetica. Non un gesto fatto per prendersi una visibilità, si direbbe oggi, o per finalità didascaliche o pastorali. Niente di tutto ciò.
"Il soldato romano non era un cristiano e compiva la sua carità serena con semplicità, e tuttavia con prudenza". Prudenza che lungi dall'essere appagamento egoistico, sembra un equilibrato atteggiamento di attenzione verso i bisogni del proprio corpo. Martino ha bisogno della sua parte di mantello. Anche su di lui l'inverno morde. Anche a cavallo, egli è di viaggio, gli arti semi assiderati, pretendono la loro parte.
La lezione di Martino non si esaurisce in questa decisione, magari un pizzico di saggezza "pagana" di riguardo per le sue esigenze fisiche. Non ci si spinga a volerlo considerare un moderato, antifanatico, quasi un proto-comunista che condivide con i poveri la sua ricchezza pagana. Nessun terzomondismo o 'teologia della liberazione' di stampo socialistoide lo potrà mai avocare a suo precursore o padre fondatore. Se queste preoccupazioni sociologiche verso chi non hà (affinché abbia qualcosa di più) tradiscono la predominanza mondana del cristianesimo moderno tutto assorbito, più o meno consapevolmente, dalle necessità materiali, implicitamente persuasa che prima viene la pancia e poi Dio e le cose spirituali, non così era ai tempi degli spiriti forti in cui visse Martino. In tempi in cui era considerato "naturale" riconoscere la supremazia dell'ordine metafisico sugli avvenimenti della storia contingente, soggetti ad una infinita variabilità non sottoponibile ad una seria conoscenza. Un tempo in cui ancora le Cose prime venivano prima.
Ma, prima di andare oltre, occorre ricordare due episodi importanti della sua storia, e qui non ha rilevanza alcuna la necessità di determinarne la veridicità storica o meno, non tanto per incredulità o creduloneria del credente, esoneriamoci una volta tanto dalle diatribe revisionistiche della Storia, con la esse maiuscola. Oltretutto il marxismo non concede spazio ai sentimenti, assiso come pretende di dover essere sul trono beffardo del sapere scientifico. Potremmo quietamente convenire con Ruskin, dicendo che nel carattere di Martino il destino lo porta "soltanto (verso) la cosa giusta, al momento giusto".
Il primo episodio 'biografico' o agiografico è, come spesso succedeva alle persone normali di una civiltà tradizionale, l'esperienza onirica prima che il campo venisse occupato dalle preoccupazioni freudiane, di tutt'altro ordine. Un sogno necessariamente 'visionario', imaginifico. Segni provenienti da un Altrove.
La lezione di Martino non si esaurisce in questa decisione, magari un pizzico di saggezza "pagana" di riguardo per le sue esigenze fisiche. Non ci si spinga a volerlo considerare un moderato, antifanatico, quasi un proto-comunista che condivide con i poveri la sua ricchezza pagana. Nessun terzomondismo o 'teologia della liberazione' di stampo socialistoide lo potrà mai avocare a suo precursore o padre fondatore. Se queste preoccupazioni sociologiche verso chi non hà (affinché abbia qualcosa di più) tradiscono la predominanza mondana del cristianesimo moderno tutto assorbito, più o meno consapevolmente, dalle necessità materiali, implicitamente persuasa che prima viene la pancia e poi Dio e le cose spirituali, non così era ai tempi degli spiriti forti in cui visse Martino. In tempi in cui era considerato "naturale" riconoscere la supremazia dell'ordine metafisico sugli avvenimenti della storia contingente, soggetti ad una infinita variabilità non sottoponibile ad una seria conoscenza. Un tempo in cui ancora le Cose prime venivano prima.
Ma, prima di andare oltre, occorre ricordare due episodi importanti della sua storia, e qui non ha rilevanza alcuna la necessità di determinarne la veridicità storica o meno, non tanto per incredulità o creduloneria del credente, esoneriamoci una volta tanto dalle diatribe revisionistiche della Storia, con la esse maiuscola. Oltretutto il marxismo non concede spazio ai sentimenti, assiso come pretende di dover essere sul trono beffardo del sapere scientifico. Potremmo quietamente convenire con Ruskin, dicendo che nel carattere di Martino il destino lo porta "soltanto (verso) la cosa giusta, al momento giusto".
Il primo episodio 'biografico' o agiografico è, come spesso succedeva alle persone normali di una civiltà tradizionale, l'esperienza onirica prima che il campo venisse occupato dalle preoccupazioni freudiane, di tutt'altro ordine. Un sogno necessariamente 'visionario', imaginifico. Segni provenienti da un Altrove.
"Vide in sogno Nostro Signore che stava davanti a lui, in mezzo agli angeli: portava sulle spalle la metà del mantello che egli aveva donato al mendicante.
E Gesù disse agli angeli che erano intorno a lui:
- Sapete chi mi ha vestito così? Il mio servitore Martino, sebbene non ancora battezzato, ha fatto ciò".
Vorreste forse intendere che dopo il suo gesto, venga sollecitato a battezzarsi e con ciò, in epoca di conversioni 'politiche', da Clodoveo a Costantino, a convertirsi?
Quando una simile interpretazione si fa largo, la chiesa si fa carico della preoccuazione temporale e istituzionale di ordine storico, di governo, e accresce la sfiducia nella Provvidenza misericordiosa. Meglio ci convince, nel sogno di Martino, quel "sebbene non ancora battezzato" a voler significare: 'non esiste essere umano che sia lontano da Me (quantunque non battezzato) purché agisca con rettitudine e bontà, in ciò ergendosi a Mio servitore'.
Certo è in gioco la preoccupazione rituale del sacerdozio, che rischia di farsi strumento di privilegio di un monopolio sacramentale esclusivo. Non vogliamo ricorrere ad un argomento che poi fu tipico della ribellione protestante, ma neppure possiamo permetterci di trascurare o essere accomodanti sulle esigenze di chiarezza principiale.
La lezione di Martino è chiara: non esigenze chiesastiche, ma sostanziali possono derimere la questione.
E la questione basilare per il farsi 'romano' del cristianesimo, dopo aver conflitto, differenziatosi, emancipatosi dalla sinagoga, la casa madre, sta nel rapportarsi in modo universale, il che implica l'accoglienza delle sensibilità e delle forme religiose e spirituali pre-esistenti. Universalità che la civiltà romana certo riconosceva, anche se non senza contraddizioni, nel suo contatto con i popoli europei.
Il sogno di Martino assolve dal 'pregiudizio pagano', dalle accuse di idolatria, dalle reciproche ritorsioni teologico-politiche sempre impliciti e incombenti nel cristianesimo antico. Non esercita pressioni sui suoi ufficiali, non sottopone a ricatti i suoi militi. Una volta 'convertito' non predica e non cerca accoliti per la 'nuova fede', il soldato romano non cerca di far proseliti nella sua corte, li lascia ai loro Dèi, serenamente: è l'altra metà del mantello. Sa bene che non è compito suo quello.
Forse non conosce Matteo, cap. 3, Dio può far nascere figli dalle pietre, ma sa che può, se lo volesse, apparire loro in sogno e sbaragliare i loro cuori. Non sa se lo farà, ma sa che anche i non battezzati hanno un'anima in cui rettitudine e bontà dimorano come in quella di un battezzato, secondo come spira il vento dello Spirito.
Solo così le cose giuste accadono, e cadono come grazia, dall'alto, sulla terra.
Martino conosce quella "essenziale spaziosità" di cui parla Romano Amerio. Scevro dai limiti angusti dei dogmi curiali e dalle preoccupazioni dei confini tra ortodossia ed eterodossia, non tra una religione e l'altra,
Ma al soldato si addice la pugna, ed arriviamo al secondo episodio apologetico. Quando Martino vuole ritirarsi dalle armi, avanti negli anni, l'imperatore Giuliano, che chiamava i cristiani col termine "galilei", per rimarcarne la loro estraneità alle tradizioni romane ed i cristiani chiamavano "pagani", cioè zootici, i romani e i latinizzati in vario grado, lo accusò di pusillanimità. Martino si impegna a vincere in battaglia con le sole armi della fede, della croce. Giuliano accetta, certo della sua sconfitta imbelle. Ma, storicamente vero o non vero non importa, lo si è detto, la vigilia del giorno in cui fa conto di metterlo alla prova, il nemico manda un'ambasciata con offerte di sottomissione e di pace.
La lezione di Martino viene così a confermarsi, novello Costantino, ma molto più periferico, un modesto comandante che si preoccupa persino che i mendicanti non abbiano molto a soffrire nei freddi inverni del nord Europa. La sua battaglia è solo quella interna, una forma di jihad ante litteram, non conosce confini, casacche di un colore o dell'altro, la fede non è un partito politico, nè lo potrà mai essere poichè Dio è unità e non parzialità, è totalità, non democrazia, verità solida non flebile opinione.
Il mantello di Martino porta lontano. Non un semplice panno, utile per l'inverno ma provvisorio, un peso per l'estate. Il ricordo che al di là della contingenza, delle miserie della quotidianità politica, dei suoi intrighi, che tutto vorrebbe deformare, vi è una Legge, immutabile e non manipolabile cui non resta che sottomettersi, in perfetta servitù, non Palazzi, nè Chiese, nè Sinagoghe, non verità esclusive di razze prescelte o superiori.
Ricca di attualità, la lezione di Martino sta prorprio nella naturale "ampiezza ideale" del suo cristianesimo, che addirittura era tale prima ancora di diventare cristiano. E' questa ampiezza che i pittori cristiani gli riconoscono, dipingendolo già con l'aureola della santità prima ancora di essere battezzato cristiano. Come se tutto in fondo cooperasse ad maiorem Dei gloriam, il battesimo del cuore precedeva dottrinalmente e naturalmente quello rituale, l'evento esteriore. Non confliggeva. A rigor di termini, Martino non si è mai convertito 'al cristianesimo', questa è la lezione segreta del suo insegnamento.
Il mantello di Martino è un dono per riscaldare l'umanità tutta, infreddolita, povera e 'usurata' dei nostri giorni.
- Sapete chi mi ha vestito così? Il mio servitore Martino, sebbene non ancora battezzato, ha fatto ciò".
Vorreste forse intendere che dopo il suo gesto, venga sollecitato a battezzarsi e con ciò, in epoca di conversioni 'politiche', da Clodoveo a Costantino, a convertirsi?
Quando una simile interpretazione si fa largo, la chiesa si fa carico della preoccuazione temporale e istituzionale di ordine storico, di governo, e accresce la sfiducia nella Provvidenza misericordiosa. Meglio ci convince, nel sogno di Martino, quel "sebbene non ancora battezzato" a voler significare: 'non esiste essere umano che sia lontano da Me (quantunque non battezzato) purché agisca con rettitudine e bontà, in ciò ergendosi a Mio servitore'.
Certo è in gioco la preoccupazione rituale del sacerdozio, che rischia di farsi strumento di privilegio di un monopolio sacramentale esclusivo. Non vogliamo ricorrere ad un argomento che poi fu tipico della ribellione protestante, ma neppure possiamo permetterci di trascurare o essere accomodanti sulle esigenze di chiarezza principiale.
La lezione di Martino è chiara: non esigenze chiesastiche, ma sostanziali possono derimere la questione.
E la questione basilare per il farsi 'romano' del cristianesimo, dopo aver conflitto, differenziatosi, emancipatosi dalla sinagoga, la casa madre, sta nel rapportarsi in modo universale, il che implica l'accoglienza delle sensibilità e delle forme religiose e spirituali pre-esistenti. Universalità che la civiltà romana certo riconosceva, anche se non senza contraddizioni, nel suo contatto con i popoli europei.
Il sogno di Martino assolve dal 'pregiudizio pagano', dalle accuse di idolatria, dalle reciproche ritorsioni teologico-politiche sempre impliciti e incombenti nel cristianesimo antico. Non esercita pressioni sui suoi ufficiali, non sottopone a ricatti i suoi militi. Una volta 'convertito' non predica e non cerca accoliti per la 'nuova fede', il soldato romano non cerca di far proseliti nella sua corte, li lascia ai loro Dèi, serenamente: è l'altra metà del mantello. Sa bene che non è compito suo quello.
Forse non conosce Matteo, cap. 3, Dio può far nascere figli dalle pietre, ma sa che può, se lo volesse, apparire loro in sogno e sbaragliare i loro cuori. Non sa se lo farà, ma sa che anche i non battezzati hanno un'anima in cui rettitudine e bontà dimorano come in quella di un battezzato, secondo come spira il vento dello Spirito.
Solo così le cose giuste accadono, e cadono come grazia, dall'alto, sulla terra.
Martino conosce quella "essenziale spaziosità" di cui parla Romano Amerio. Scevro dai limiti angusti dei dogmi curiali e dalle preoccupazioni dei confini tra ortodossia ed eterodossia, non tra una religione e l'altra,
Ma al soldato si addice la pugna, ed arriviamo al secondo episodio apologetico. Quando Martino vuole ritirarsi dalle armi, avanti negli anni, l'imperatore Giuliano, che chiamava i cristiani col termine "galilei", per rimarcarne la loro estraneità alle tradizioni romane ed i cristiani chiamavano "pagani", cioè zootici, i romani e i latinizzati in vario grado, lo accusò di pusillanimità. Martino si impegna a vincere in battaglia con le sole armi della fede, della croce. Giuliano accetta, certo della sua sconfitta imbelle. Ma, storicamente vero o non vero non importa, lo si è detto, la vigilia del giorno in cui fa conto di metterlo alla prova, il nemico manda un'ambasciata con offerte di sottomissione e di pace.
La lezione di Martino viene così a confermarsi, novello Costantino, ma molto più periferico, un modesto comandante che si preoccupa persino che i mendicanti non abbiano molto a soffrire nei freddi inverni del nord Europa. La sua battaglia è solo quella interna, una forma di jihad ante litteram, non conosce confini, casacche di un colore o dell'altro, la fede non è un partito politico, nè lo potrà mai essere poichè Dio è unità e non parzialità, è totalità, non democrazia, verità solida non flebile opinione.
Il mantello di Martino porta lontano. Non un semplice panno, utile per l'inverno ma provvisorio, un peso per l'estate. Il ricordo che al di là della contingenza, delle miserie della quotidianità politica, dei suoi intrighi, che tutto vorrebbe deformare, vi è una Legge, immutabile e non manipolabile cui non resta che sottomettersi, in perfetta servitù, non Palazzi, nè Chiese, nè Sinagoghe, non verità esclusive di razze prescelte o superiori.
Ricca di attualità, la lezione di Martino sta prorprio nella naturale "ampiezza ideale" del suo cristianesimo, che addirittura era tale prima ancora di diventare cristiano. E' questa ampiezza che i pittori cristiani gli riconoscono, dipingendolo già con l'aureola della santità prima ancora di essere battezzato cristiano. Come se tutto in fondo cooperasse ad maiorem Dei gloriam, il battesimo del cuore precedeva dottrinalmente e naturalmente quello rituale, l'evento esteriore. Non confliggeva. A rigor di termini, Martino non si è mai convertito 'al cristianesimo', questa è la lezione segreta del suo insegnamento.
Il mantello di Martino è un dono per riscaldare l'umanità tutta, infreddolita, povera e 'usurata' dei nostri giorni.
Nessun commento:
Posta un commento