mercoledì 6 giugno 2012

Un mirabile ritratto.



Un ritratto curioso, incisivo, discusso, relativamente famoso nell'ambito letterario nord americano, di Sir Lepel Griffin della civilizzazione statunitense. Non è di oggi, non si gli si può imputare un antiamericanismo affetto da distorsioni ideologiche e politche, se non altro risale al 1884, apparso dapprima sul Fortnightly Revew, e poi raccolto con altri scritti in un libro: The Great Republic. Tuttavia un ritratto schietto, scritto da un viaggiatore che osserva e giudica ciò che vede, che ci porta riflettere su quell'ulteriore passo compiuto dall'Occidente verso il baratro del nulla, seguendo la sua via del tramonto, l' abendland.

"L'America è la terra della fine di ogni illusione, nella sua politica, nella letteratura e nell'arte, nella mnatura nella città e nella gente. Avendo una buona dose di esperienza dei vari Paesi del mondo civile, non riuscirei ad immainare un luogo - esclusa la Russia - in cui proprio non vorrei vivere se non l'America. Non riesco a pensaread un altro posto in cui la vita sia meno degna di essere vissuta, più corrotta, meschina e scortese.

America, apoteosi dei filistei, confusione e disperazione degli Mecca di ogni ciarlatano, uomini di Stato, sia esso sociale o religioso, terra in cui l'unico Dio adorato è Mammona e la suprema illuminazione non va oltre il calcolo dei profitti; in cui una nazione, per coprire di ricchezza i suoi fornitori, gli affaristi e i pescecani della finanza, ha liberato i suoi schiavi e ha ridotto a schiavi gli uomini liberi; in cui la gente è rimpinzata ed ebbra di materialismo.

L'America millanta la sua uguaglianza e la sua libertà, e non si accorge che in nessun altro posto al mondo i diritti dell'individuo e gli interessi della società vengono calpestati più sistematicamente che in America".

Si può supporre che, in questo giudizio, Griffin vi abbia messo un certo risentimento di orgoglio ferito, e forse anche livore, quello di un funzionario imperiale britannico attivo in India per una ex colonia, quella Americana, andata perduta alla Corona.
Nonostante il giudizio sia sferzante e tagliente come pochi e proveniente da parte sassone per giunta, si intravedono posizioni critiche non fondate su di una visione opposta alle tendenze espansionistiche del mondo occidentale. Non una parola per le civiltà amerindie spazzate via dall'mpietoso cammino del progresso,  dalle sue fabbriche alientanti, delle sue ferrovie macina profitti e dalla invasione culturale materialista. Non c'era posto per loro in questo mondo. Non era previsto che delle civiltà tradizonai potessero resisterle. Di fatto, magari con partecipato dolore, ma i popoli nativi in quanto retti da concezioni che sotto diverse forme trascendevano il dato materiale, ritenuto invece l'unico dato dai conquistatori, in una parola 'primitivi', come tanti altri sparsi qui e là sulla faccia del pianeta, erano condannati dalla 'necessita' delle cose a scomparire. L'etnocidio planetario commesso dagli occidentali  fu invece presentato come una missione civilizzatrice, umanitaria, necessaria per portare medicine e progresso; un meritevole gesto e non un atto di distruzione immane e irreparabile.


Ma facendosi sempre più strada all'interno dell'Occidente i dubbi su questa invasione, sulla mondializzazione, è chiaro che vada rafforzandosi sempre più l'incertezza se non addirittura la consapevolezza degli errori e del tradimento ed oblio dei presupposti metafisici che l'hanno resa pensabile dapprima e poi attuabile nel corso della storia, è chiaro che le dimensioni di tale revisione fanno assumere alla faccenda proporzioni cosmiche. Di fronte a queste considerazioni, forte è la tentazione di arrendersi all'inevitabile, o al reputato tale. Ma arrendersi comporta anche rassegnarsi, e rassegnarsi vuol dire morire ancor da vivi, sepolti in una esistenza alienata incurabile, patologica, fatta di cose inautentiche minate dal dubbio, con esiti suicidari, per gli umani e la natura.

Eppure con tutto ciò, con tutti sospetti di rivalità, odii e pregiudizi, il giudizio di Griffin sembra celare qualcosa d'altro. I sentimenti antimericani avrebbero potuto prendere altre strade, esperimersi in altri modi. No. Va a colpire proprio il cuore del declino dell'Occidente, come gli appare nella seconda metà dell'Ottocento: la cultura materialistica, tecnico-scintifica, divenuta ormai dominante. Magari non la vede con altrettanta chiarezza non appena volta lo sguardo verso il colonialismo britannico, ma il fatto che la avverta in tutta la sua distruttività non è senza conseguenze. 
Forse non a caso dopo tanti anni trascorsi in India ed in Asia, Griffin sembra abbia in qualche modo assorbito una dimensione orientale, anche se frammentaria e con vistose carenze, ma certi contatti lasciano il segno, è come se parlassero alle profondità delle coscienze, degli archetipi, come se potessero questi morti sciamani richiamarci in vita, far riaffiorare a vita ciò che si  riteneva morto, liberati e dotati di una nuova visione. 
Queste operazioni sciamaniche di renovatio sono vere ed efficaci, restituiscono dignità umana al degrado occidentale, la medicina tradizione non cura per porci sotto ricatto, per renderci dipendenti all'imperio tecnologico, con medici robotizzati, essa opera la guarigione completa dello spirito e dell'epoca oscura, ma per far questo non dobbiamo temere la morte, non ci si deve sottrarre alla morte  ad ogni costo; ci sono prezzi che non è giusto pagare. Questo è l'unico debito verso l'Essere che è giusto onorare, non quello verso la BCE, il FMI  o i fondi (debiti) sovrani. Questi sono ricatti economico-medicali da respingere per sentirsi vitali.




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